Jeremy Rifkin
di Carlo Clericetti*
In visita alla London School Elisabetta chiese agli economisti: “Come mai nessuno aveva previsto questa crisi?”. In realtà l’avevano prevista gli economisti che non seguivano la teoria dominante. Come Jeremy Rifkin, di cui riproponiamo un’intervista di 20 anni fa sorprendentemente attuale anche per le tematiche legate al lavoro
“Come mai nessuno aveva previsto questa crisi?”. E’ nota come “la domanda della regina” quella che Elisabetta d’Inghilterra fece nel novembre 2008 durante una visita alla London School of Economics, generando un notevole sconcerto. La regina però si sbagliava, perché qualcuno la crisi l’aveva prevista. Certo, non gli economisti seguaci delle teorie dominanti, che purtroppo erano anche i più ascoltati – e incredibilmente lo sono ancora – nei palazzi del potere.
Giusto 20 anni fa mi capitò di intervistare Jeremy Rifkin, che in quel periodo aveva raggiunto una notorietà mondiale con il suo libro “La fine del lavoro”. Ripropongo qui quella intervista perché è di sorprendente attualità. Non solo per le tematiche del lavoro: Rifkin aveva individuato perfettamente le cause della crisi. Se la regina avesse chiesto a lui, non si sarebbe trovata, 11 anni dopo, a dover fare quella sua famosa domanda.
“La settimana di 35 ore? Sì, certo, è un primo passo nella direzione giusta. Ma bisognerebbe arrivare a 30 ore, e senza riduzioni di salario. Altrimenti continueremo a viaggiare verso la catastrofe”.
Non ha certo paura di andare controcorrente Jeremy Rifkin, economista americano diventato famoso in tutto il mondo per il suo saggio di due anni fa “La fine del lavoro”. La tranquilla hall dell’ hotel “Due torri” di Verona non ispira scenari apocalittici, ma Rifkin ripete più volte che i paesi industrializzati, e gli Stati Uniti in particolare, si trovano sull’ orlo di una grande crisi, paragonabile a quella del ’29. A meno di non avere il coraggio e la fantasia per imboccare una strada completamente diversa. “In America ci si preoccupa tanto del deficit pubblico, che è al 3% del reddito nazionale. Ma nessuno sembra preoccuparsi dei debiti dei privati. L’ anno prossimo il 19% del reddito delle famiglie se ne andrà per pagare i debiti fatti comprando con le carte di credito. La metà delle famiglie ha risparmi inferiori ai 1.000 dollari (1.700.000 lire), un milione e duecentomila di esse farà bancarotta nel ’98. Le disuguaglianze sociali aumentano, solo in Russia sono più forti che da noi. Insomma, una situazione esplosiva”.
Ma che cosa c’entra questo con la riduzione dell’orario di lavoro?
“C’entra e come. Negli ultimi anni abbiamo vissuto una rivoluzione tecnologica straordinaria, si produce sempre di più con sempre meno manodopera. Il lavoro di massa è finito, ormai il lavoro è d’élite mentre la maggior parte della gente è disoccupata o pagata pochissimo. Il risultato è che c’è una grande abbondanza di merci, ma sempre meno persone in grado di comprarle. Tra queste molte si sono indebitate, creando una situazione che ormai sta per esplodere. E’ già successo in passato, quando il frutto dei “salti” tecnologici è stato trattenuto da poche mani, invece di essere redistribuito a tutta la società: dopo un certo tempo l’economia è andata in crisi, come nel ’29, appunto. La riduzione dell’orario di lavoro è un modo per redistribuire questa ricchezza, facendo aumentare il numero degli occupati”.
Negli ultimi quarant’anni l’orario di lavoro è rimasto più o meno stabile. Ma l’economia mondiale è molto cambiata, le barriere protezionistiche sono quasi completamente cadute, ormai non si parla d’altro che del fenomeno della globalizzazione. Le imprese che riducessero l’orario a parità di salario non rischierebbero di andare fuori mercato?
“Dovrebbero preoccuparsi molto di più di chi comprerà le loro merci. Tra l’altro l’America, con i suoi alti consumi, sostiene tutta la domanda mondiale. Se si verificasse in America una crisi della domanda, le conseguenze sarebbero gravissime in tutto il mondo. Altro che la crisi asiatica! Comunque, la mia idea è che lo Stato debba incentivare la riduzione di orario, per esempio con sgravi fiscali, ma che dovrebbero essere concessi solo se si verificano insieme tre condizioni: l’azienda riduce l’orario, non diminuisce il salario (anzi, possibilmente lo aumenta) e assume altre persone. Italia e Francia sono su questa strada, in questo momento sono all’avanguardia. Ma faccio una previsione: fra 5 anni lo faremo anche in America, quando il sistema dei debiti scoppierà”.
Lei dunque propone di spostare l’onere dall’azienda allo Stato. Con quali conseguenze per le finanze pubbliche?
“Le maggiori spese potrebbero tranquillamente essere coperte da tasse sui consumi di lusso, che colpiscano solo i più ricchi: dai telefonini, ai cd-rom, al gioco d’azzardo, e così via”.
Gli americani non sembrano così propensi a sopportare aumenti delle tasse. E in America, comunque, la pressione fiscale è intorno al 30% del Pil. In Europa è in media al 45: le sembra proponibile aumentarla ancora?
“Bisogna considerare che l’onere per le finanze pubbliche sarebbe solo provvisorio. I nuovi assunti, infatti, da una parte comincerebbero a pagare le imposte, dall’altra non graverebbero più sulla spesa sociale. Alla fine in realtà si risparmia”.
Sembra l’uovo di Colombo. E perché mai, allora, gli imprenditori sarebbero così ferocemente contrari a questa prospettiva?
“Perché ci vuole il coraggio di guardare lontano. Molti imprenditori, in privato, mi danno ragione, ma non osano prendere una posizione pubblica di questo tipo”.
Alla Volkswagen la riduzione d’ orario non ha dato i risultati che lei dice.
“E neanche alla Bmw. Perché sono stati ridotti i salari ed è mancata la partecipazione dello Stato. Al tavolo delle trattative devono sedere tre protagonisti: gli imprenditori, i sindacati e lo Stato che concede agevolazioni a determinate condizioni. Il fatto è che il capitalismo è il miglior sistema che esista per creare nuove opportunità, ma non sa redistribuire. Le industrie sanno solo ridurre il costo del lavoro. I sindacati sono l’antidoto, costringono a redistribuire i frutti. Gli imprenditori dovrebbero augurarsi sindacati forti, e decisi a battere la strada della riduzione d’orario per aumentare l’ occupazione. Altrimenti, tra poco, non avranno più a chi vendere i loro prodotti. Del resto, tutta la storia dell’ industria – e del progresso tecnologico – è una storia di riduzione dell’orario di lavoro. E i sindacati sono diventati forti con queste battaglie, mentre si sono indeboliti quando si sono concentrati sui soldi”.
Ma ci sono degli esempi di aziende che sono andate in questa direzione?
“Certo. La Kellogg, per esempio, quella dei fiocchi d’avena, dal 1930 fino agli anni ’60 aveva un orario di 30 ore”.
E perché smise?
“I soldati tornati dalla guerra volevano comprare casa e la macchina nuova. I sindacati furono spinti a trattare soprattutto aumenti salariali. Ma anche oggi, ci sono una decina di aziende medio-piccole, di cui sono consulente, che applicano l’orario di 30 ore pagandone 40. Vanno bene, la produttività è molto alta: più si lavora, più la produttività cala”.
Nessun altro?
“Un altro esempio notevole è proprio qui in Europa: la Hewlett Packard di Grenoble. Anni fa è stato stipulato un nuovo contratto per il ciclo continuo che ha raddoppiato la produttività, e l’azienda ha diviso il guadagno con i lavoratori: fanno turni di 4 giorni e sono pagati per 5”.
La riduzione d’orario sventerebbe i rischi di crisi?
“No, non basterebbe a ridurre a sufficienza la disoccupazione, la rivoluzione tecnologica è stata troppo radicale. Bisogna puntare sul Terzo settore, che è molto più ampio di quanto si intende comunemente parlando di non profit: si va dalle attività assistenziali alle arti, la cultura, lo sport, gli aiuti al Terzo mondo… “.
Anche in questo caso con l’aiuto finanziario dello Stato?
“Certo. Ma a quello che ho detto finora voglio aggiungere un altro aspetto. Oggi al mondo esistono quattro grandi datori di lavoro: lo Stato, il mercato, la criminalità e il Terzo settore. I primi due danno sempre meno occupazione, la criminalità, invece, è in forte crescita. Ma la criminalità è un costo, e un costo alto: per la protezione, e anche per i detenuti, per ognuno dei quali negli Usa si spendono dai 30 ai 35.000 dollari l’anno. Questa crescita si può combattere solo facendo sviluppare il Terzo settore. La tecnologia ha liberato la gente dal lavoro duro, ora bisogna permetter loro di dedicarsi a queste attività, in cui non potranno mai essere sostituiti da computers”.
*Già direttore di Affari & Finanza di Repubblica