Tratto da lavoce.info
di Carlo Scarpa, professore di Economia Politica presso l’Università di Brescia
L’epidemia di Covid, che ha quasi azzerato il traffico autostradale, s’inserisce in una situazione già molto delicata nei rapporti tra lo stato e il concessionario. Il pericolo è che il governo utilizzi le misure di sostegno alle imprese per interferire nel loro azionariato.
È difficile difendere Atlantia (o, se preferite, Autostrade per l’Italia – Aspi) su tutti i fronti. A quanto pare (ma sono di quelli che preferiscono far lavorare i magistrati) sul Ponte Morandi l’hanno fatta molto grossa, hanno una concessione per la gestione delle autostrade che definire generosa è dire poco (ma è colpa loro o di chi gliela ha data?) e almeno fino all’anno scorso si sono pagati regolarmente dividendi importanti salvo poi lamentarsi della scarsa liquidità. Quanto scriverò non è quindi sicuramente legato a un’intrinseca simpatia per la loro posizione. Ma l’attuale situazione e i rumors che arrivano dalla politica nazionale fanno accapponare la pelle. E non è giusto tacere.
Un contrasto che viene da lontano
Che in un momento come questo il governo si metta a litigare con una delle principali imprese italiane è lo specchio della follia nella quale viviamo, anche se l’attuale tiro alla fune tra governo e Aspi è solo l’ultima puntata di una telenovela che dura da circa due anni. Dopo la tragedia del Ponte Morandi del 2018, alcuni erano tentati di revocare la concessione di Aspi. Ma la commissione di giuristi nominata dall’allora ministro Toninelli concluse che il costo dell’operazione sarebbe stato eccessivo, anche qualora si fossero superati i numerosi problemi legali. Al centro di tutto un’onerosa clausola che in caso di revoca della concessione avrebbe garantito ad Autostrade un ammontare pari ai profitti che avrebbe potuto ottenere fino alla fine della concessione stessa. La stima è di circa 23 miliardi di euro.
Su questo punto è intervenuto l’articolo 35 del “mille proroghe” di fine 2019, che ha modificato la concessione con Autostrade, rendendo la revoca molto meno onerosa per lo Stato: ora a quanto pare costerebbe “solo” 8 miliardi circa. Certo, Aspi può anche restituire la concessione e monetizzare i 23 miliardi (stima da verificare), ma questo significa abbandonare il business delle autostrade. Meglio così per tutti? Mi permetto di dubitarlo, anche perché verosimilmente finiremmo nelle mani di Anas, che sulla gestione dei ponti (e in generale sulla manutenzione) ha un track record certamente non migliore di quello di Aspi.
Modificare unilateralmente un contratto tra lo stato e un’impresa privata è operazione legalmente assai discutibile, come si può intuire; ma di questo – se non si trova un accordo, al momento difficile – immagino si parlerà a breve nelle corti nazionali ed europee. Ciò ha comunque avuto conseguenze pesanti. I mercati finanziari. per esempio, hanno capito immediatamente il messaggio: poiché la sua concessione è seriamente a rischio, a meno di una settimana dal mille proroghe Fitch annuncia il downgrade (di tre livelli!) di Atlantia, passata da BBB (Good credit quality – rischio default basso) a BB (Speculative – elevata vulnerabilità al rischio default), mentre Standard and Poor’s qualifica Alitalia come junk. Questo innesca effetti a cascata: Atlantia infatti aveva finanziamenti in essere con investitori istituzionali che, a quanto si capisce, a fronte di questo downgrade avrebbero potuto revocare tali finanziamenti. Ed è facile immaginare la congerie di trattative e consultazioni con i finanziatori, con difficoltà crescenti nell’attirare finanziamenti e un costo del debito che si può immaginare in crescita. Tutto questo da gennaio in poi.
Che in un momento come questo il governo si metta a litigare con una delle principali imprese italiane è lo specchio della follia nella quale viviamo, anche se l’attuale tiro alla fune tra governo e Aspi è solo l’ultima puntata di una telenovela che dura da circa due anni. Dopo la tragedia del Ponte Morandi del 2018, alcuni erano tentati di revocare la concessione di Aspi. Ma la commissione di giuristi nominata dall’allora ministro Toninelli concluse che il costo dell’operazione sarebbe stato eccessivo, anche qualora si fossero superati i numerosi problemi legali. Al centro di tutto un’onerosa clausola che in caso di revoca della concessione avrebbe garantito ad Autostrade un ammontare pari ai profitti che avrebbe potuto ottenere fino alla fine della concessione stessa. La stima è di circa 23 miliardi di euro.
Su questo punto è intervenuto l’articolo 35 del “mille proroghe” di fine 2019, che ha modificato la concessione con Autostrade, rendendo la revoca molto meno onerosa per lo Stato: ora a quanto pare costerebbe “solo” 8 miliardi circa. Certo, Aspi può anche restituire la concessione e monetizzare i 23 miliardi (stima da verificare), ma questo significa abbandonare il business delle autostrade. Meglio così per tutti? Mi permetto di dubitarlo, anche perché verosimilmente finiremmo nelle mani di Anas, che sulla gestione dei ponti (e in generale sulla manutenzione) ha un track record certamente non migliore di quello di Aspi.
Modificare unilateralmente un contratto tra lo stato e un’impresa privata è operazione legalmente assai discutibile, come si può intuire; ma di questo – se non si trova un accordo, al momento difficile – immagino si parlerà a breve nelle corti nazionali ed europee. Ciò ha comunque avuto conseguenze pesanti. I mercati finanziari. per esempio, hanno capito immediatamente il messaggio: poiché la sua concessione è seriamente a rischio, a meno di una settimana dal mille proroghe Fitch annuncia il downgrade (di tre livelli!) di Atlantia, passata da BBB (Good credit quality – rischio default basso) a BB (Speculative – elevata vulnerabilità al rischio default), mentre Standard and Poor’s qualifica Alitalia come junk. Questo innesca effetti a cascata: Atlantia infatti aveva finanziamenti in essere con investitori istituzionali che, a quanto si capisce, a fronte di questo downgrade avrebbero potuto revocare tali finanziamenti. Ed è facile immaginare la congerie di trattative e consultazioni con i finanziatori, con difficoltà crescenti nell’attirare finanziamenti e un costo del debito che si può immaginare in crescita. Tutto questo da gennaio in poi.
La tempesta perfetta
Su questa situazione già compromessa, da fine febbraio si innesca poi la tempesta Covid che ha quasi azzerato il traffico autostradale e ha inciso in maniera analoga anche sul secondo importante business di Atlantia, molto forte nel settore aeroportuale. Per l’azienda era quindi cruciale salvare intanto la concessione autostradale e a quanto risulta a inizio marzo ha messo sul tavolo del governo una proposta di accordo, con cospicui investimenti in cambio della concessione. Ma è difficile conciliare investimenti, situazione finanziaria precaria e anche l’ulteriore richiesta di cambiare il regime tariffario per l’autostrada. Perché si noti che c’è un’altra partita aperta, con l’Autorità di regolazione dei trasporti (Art) che cerca – comprensibilmente – di introdurre per tutti un regime tariffario normale. All’inizio del suo percorso, l’Art non aveva per legge alcun mezzo per intervenire sulle concessioni autostradali in essere, avendo giurisdizione solo sulle nuove concessioni. Questo potere le è poi stato conferito a fine 2018 e ormai si comincia ad arrivare a regime un po’ per tutte le concessioni.
L’idea dell’Art è di applicare alle concessioni autostradali un principio piuttosto condiviso a livello internazionale e già adottato in diversi altri settori regolati. Fai nuovi investimenti? Li mettiamo in tariffa, aumentando il prezzo che ricevi dal tuo servizio in modo da coprire il loro costo, inclusi gli ammortamenti e la remunerazione equa del capitale. Una struttura che molti concessionari hanno già digerito ma su cui Aspi ancora non si è pronunciata. Se ne possono discutere i dettagli, ma la petizione dell’Art sembra piuttosto comprensibile ed è anzi finalizzata a normalizzare il settore. Il Covid-19 non è colpa di nessuno e la richiesta del governo di misure compensative dopo la tragedia del Ponte Morandi ci può stare: in altre parole, i singoli pezzi possono anche essere legittimi (a parte il cambiamento unilaterale della concessione, su cui si divertiranno i legali), ma per Aspi il puzzle non sta insieme. Una tempesta perfetta, da cui esci se hai un po’ di ossigeno – ovvero quattrini.
Su questa situazione già compromessa, da fine febbraio si innesca poi la tempesta Covid che ha quasi azzerato il traffico autostradale e ha inciso in maniera analoga anche sul secondo importante business di Atlantia, molto forte nel settore aeroportuale. Per l’azienda era quindi cruciale salvare intanto la concessione autostradale e a quanto risulta a inizio marzo ha messo sul tavolo del governo una proposta di accordo, con cospicui investimenti in cambio della concessione. Ma è difficile conciliare investimenti, situazione finanziaria precaria e anche l’ulteriore richiesta di cambiare il regime tariffario per l’autostrada. Perché si noti che c’è un’altra partita aperta, con l’Autorità di regolazione dei trasporti (Art) che cerca – comprensibilmente – di introdurre per tutti un regime tariffario normale. All’inizio del suo percorso, l’Art non aveva per legge alcun mezzo per intervenire sulle concessioni autostradali in essere, avendo giurisdizione solo sulle nuove concessioni. Questo potere le è poi stato conferito a fine 2018 e ormai si comincia ad arrivare a regime un po’ per tutte le concessioni.
L’idea dell’Art è di applicare alle concessioni autostradali un principio piuttosto condiviso a livello internazionale e già adottato in diversi altri settori regolati. Fai nuovi investimenti? Li mettiamo in tariffa, aumentando il prezzo che ricevi dal tuo servizio in modo da coprire il loro costo, inclusi gli ammortamenti e la remunerazione equa del capitale. Una struttura che molti concessionari hanno già digerito ma su cui Aspi ancora non si è pronunciata. Se ne possono discutere i dettagli, ma la petizione dell’Art sembra piuttosto comprensibile ed è anzi finalizzata a normalizzare il settore. Il Covid-19 non è colpa di nessuno e la richiesta del governo di misure compensative dopo la tragedia del Ponte Morandi ci può stare: in altre parole, i singoli pezzi possono anche essere legittimi (a parte il cambiamento unilaterale della concessione, su cui si divertiranno i legali), ma per Aspi il puzzle non sta insieme. Una tempesta perfetta, da cui esci se hai un po’ di ossigeno – ovvero quattrini.
Una trattativa con il governo un po’ borderline
In questi giorni, mentre ancora il governo non sembra avere definito la sua posizione sulla proposta di Aspi di due mesi fa, esce poi il decreto “Liquidità”, che ammette la possibilità che le imprese in difficoltà causa Covid accedano a garanzie pubbliche tramite Sace. Aspi ci prova: i requisiti sembra averli tutti. Purtroppo invece pare che Sace si stia sfilando, a seguito di un ordine di scuderia governativo di non prestare soldi ad Autostrade. È solo il costo del non decidere o la decisione di prendere un’impresa “non amica” per il collo? Il sospetto esiste. E la dichiarazione di Autostrade, secondo la quale senza una garanzia pubblica i ventilati investimenti saranno sospesi è un ricatto? O è solo la constatazione che senza soldi un’impresa non può investire? Questo è il punto al quale ci troviamo.
Si noti che la disponibilità di garanzie pubbliche tramite Sace non è una liberalità straordinaria alla quale Aspi si appella, ma è prevista per tutte le imprese dal dl “Liquidità” n. 23 dell’8 aprile 2020. Nessun automatismo, per carità, ma Aspi chiede semplicemente di poter accedere agli stessi benefici che la legge consente a molte altre imprese. Il dibattito mi ricorda quello iniziato (poi, per fortuna, forse accantonato) relativamente ad analoga richiesta avanzata da Fca Italia, la ex Fiat. Si tratta di un’impresa che impiega oltre 50.000 persone in Italia, dove paga le tasse per tutto quanto vi produce, ma che è impopolare per aver portato all’estero la sede del gruppo, ormai più americano che italiano. Anche Fca è un’impresa molto segnata dalla crisi, e ancora non si capisce se potrà accedere alle garanzie previste dal decreto “Liquidità”, con alcuni che chiedono “in cambio” che questo gruppo multinazionale riporti la sede in Italia. Chissà se avremmo sentito le stesse richieste se gli impianti di Fca Italia fossero in realtà di Toyota o Volkswagen.
Sia per Fca sia per Aspi la discussione non ha nulla a che fare con il merito di credito, ma con il desiderio di qualcuno di usare la finanza pubblica per regolare delle partite del tutto diverse. Per fortuna per ora la questione Fca pare rientrata. Quella di Aspi no, anzi peggiora.
In questi giorni, mentre ancora il governo non sembra avere definito la sua posizione sulla proposta di Aspi di due mesi fa, esce poi il decreto “Liquidità”, che ammette la possibilità che le imprese in difficoltà causa Covid accedano a garanzie pubbliche tramite Sace. Aspi ci prova: i requisiti sembra averli tutti. Purtroppo invece pare che Sace si stia sfilando, a seguito di un ordine di scuderia governativo di non prestare soldi ad Autostrade. È solo il costo del non decidere o la decisione di prendere un’impresa “non amica” per il collo? Il sospetto esiste. E la dichiarazione di Autostrade, secondo la quale senza una garanzia pubblica i ventilati investimenti saranno sospesi è un ricatto? O è solo la constatazione che senza soldi un’impresa non può investire? Questo è il punto al quale ci troviamo.
Si noti che la disponibilità di garanzie pubbliche tramite Sace non è una liberalità straordinaria alla quale Aspi si appella, ma è prevista per tutte le imprese dal dl “Liquidità” n. 23 dell’8 aprile 2020. Nessun automatismo, per carità, ma Aspi chiede semplicemente di poter accedere agli stessi benefici che la legge consente a molte altre imprese. Il dibattito mi ricorda quello iniziato (poi, per fortuna, forse accantonato) relativamente ad analoga richiesta avanzata da Fca Italia, la ex Fiat. Si tratta di un’impresa che impiega oltre 50.000 persone in Italia, dove paga le tasse per tutto quanto vi produce, ma che è impopolare per aver portato all’estero la sede del gruppo, ormai più americano che italiano. Anche Fca è un’impresa molto segnata dalla crisi, e ancora non si capisce se potrà accedere alle garanzie previste dal decreto “Liquidità”, con alcuni che chiedono “in cambio” che questo gruppo multinazionale riporti la sede in Italia. Chissà se avremmo sentito le stesse richieste se gli impianti di Fca Italia fossero in realtà di Toyota o Volkswagen.
Sia per Fca sia per Aspi la discussione non ha nulla a che fare con il merito di credito, ma con il desiderio di qualcuno di usare la finanza pubblica per regolare delle partite del tutto diverse. Per fortuna per ora la questione Fca pare rientrata. Quella di Aspi no, anzi peggiora.
Trattative anche sul cambio di proprietà?
Perché ora la pressione è relativa al cambio dell’azionista di controllo di Atlantia. Si noti che non si tratta di uno scambio “stile Lufthansa”, impresa oggetto di una vera operazione di salvataggio, e nella quale lo stato tedesco dovrebbe entrare come azionista. Il decreto “Liquidità” non mi pare infatti ponga analoghe condizioni ad altre imprese. Non risulta che nella legge si dica che a fronte di una garanzia pubblica (si noti: garanzia, non prestito!) in qualunque azienda beneficiaria si avrà l’ingresso nell’azionariato di soggetti più graditi all’attuale governo. Per tacere del fatto che qui il primo problema è stato creato dal decreto di dicembre 2019, che ha cambiato unilateralmente la concessione.
L’intervento pubblico a sostegno delle imprese non è né buono né cattivo e in questo periodo è inevitabile. Ma sicuramente diventa un problema quando non viene ispirato a criteri in qualche modo oggettivi e quando la discrezionalità interferisce con i legittimi obiettivi della politica economica. In quel momento la discrezionalità diviene arbitrio e si esce dall’economia di mercato, per quanto “mista” possa essere. E forse anche dalla stessa legittimità.
Quando la negoziazione di un prestito non segue criteri riscontrabili, e il fine dell’operazione risulta essere la ri-nazionalizzazione della vecchia “Società autostrade” attraverso la Cassa depositi e prestiti, allora mi chiedo se non siano saltati alcuni principi fondanti della nostra economia. La ratio della concessione di queste garanzie pubbliche non è di aggiustare le concessioni autostradali o di spingere delle imprese a portare la sede fiscale in Italia. La politica economica di un paese civile non si deve basare su liste di proscrizione. Forse nel passato la nostra politica commise errori nello stare troppo vicina a certe famiglie industriali. Additarle oggi come nemici del popolo e usare il denaro pubblico per interferire nell’azionariato di un’impresa rappresenta un errore di segno opposto, e di non minore gravità.
Perché ora la pressione è relativa al cambio dell’azionista di controllo di Atlantia. Si noti che non si tratta di uno scambio “stile Lufthansa”, impresa oggetto di una vera operazione di salvataggio, e nella quale lo stato tedesco dovrebbe entrare come azionista. Il decreto “Liquidità” non mi pare infatti ponga analoghe condizioni ad altre imprese. Non risulta che nella legge si dica che a fronte di una garanzia pubblica (si noti: garanzia, non prestito!) in qualunque azienda beneficiaria si avrà l’ingresso nell’azionariato di soggetti più graditi all’attuale governo. Per tacere del fatto che qui il primo problema è stato creato dal decreto di dicembre 2019, che ha cambiato unilateralmente la concessione.
L’intervento pubblico a sostegno delle imprese non è né buono né cattivo e in questo periodo è inevitabile. Ma sicuramente diventa un problema quando non viene ispirato a criteri in qualche modo oggettivi e quando la discrezionalità interferisce con i legittimi obiettivi della politica economica. In quel momento la discrezionalità diviene arbitrio e si esce dall’economia di mercato, per quanto “mista” possa essere. E forse anche dalla stessa legittimità.
Quando la negoziazione di un prestito non segue criteri riscontrabili, e il fine dell’operazione risulta essere la ri-nazionalizzazione della vecchia “Società autostrade” attraverso la Cassa depositi e prestiti, allora mi chiedo se non siano saltati alcuni principi fondanti della nostra economia. La ratio della concessione di queste garanzie pubbliche non è di aggiustare le concessioni autostradali o di spingere delle imprese a portare la sede fiscale in Italia. La politica economica di un paese civile non si deve basare su liste di proscrizione. Forse nel passato la nostra politica commise errori nello stare troppo vicina a certe famiglie industriali. Additarle oggi come nemici del popolo e usare il denaro pubblico per interferire nell’azionariato di un’impresa rappresenta un errore di segno opposto, e di non minore gravità.