Tratto da lavoce.info
di Massimo Baldini, professore all’Università di Modena e Reggio Emilia
Silvia Giannini, professore ordinario di Scienza delle finanze presso l’Università di Bologna
Simone Pellegrino, professore associato di Scienza delle finanze dell’Università di Torino.
e Leonzio Rizzo, ordinario di Scienza delle Finanze all’Università di Ferrara e research affiliate presso l’IEB dell’Università di Barcellona
Il governo si è impegnato a realizzare una riforma dell’Irpef, senza però indicarne per il momento i tratti salienti. Dall’analisi dei punti di forza e di debolezza dell’imposta emergono in modo chiaro quali dovrebbero essere le priorità da cui partire.
Il tabù della base imponibile
Da qualche giorno è entrato in vigore il “nuovo” bonus Renzi, con una modifica normativa che dovrebbe rimanere in vigore solo per sei mesi, in attesa di una riforma organica dell’imposta a partire dal 2021. Il governo si è impegnato in questa direzione, ma non sono ancora noti i tratti salienti che potrebbero interessare la riforma dell’imposta sul reddito.
Riprendiamo qui i punti di forza e di debolezza dell’Irpef, sottolineando le priorità, in una logica di buon senso, dato l’andamento dei conti pubblici, e di un contemperato mix tra equità ed efficienza. Per sommi capi, l’Irpef dipende da tre fattori: la base imponibile, la scala delle aliquote e la struttura delle detrazioni per lavoro e famiglia. Il vero tabù oggi sembra essere la base imponibile. Difficile sentire qualche politico prendere posizione in merito. Eppure la base imponibile, nel tempo, anche nell’ultimo ventennio, è stata oggetto di una profonda erosione, a volte poco giustificabile. Prima o poi forse varrebbe la pena rifletterci e porre qualche paletto.
In molti paesi le riforme dell’imposta sul reddito degli ultimi decenni sono state guidate dalla regola “allargamento della base imponibile e riduzione delle aliquote”, cercando di raggiungere alcuni obiettivi principali, tra cui un’imposta più semplice e meno distorsiva sulle scelte dei contribuenti, con un gettito ancora elevato. Invece di applicare questo paradigma, nell’ultimo ventennio in Italia abbiamo fatto il contrario: una quota rilevante di base imponibile è esclusa dalla progressività dell’imposta personale e assoggettata a imposizione proporzionale oppure, in alcuni casi, esentata da imposta, come avviene per: i redditi da capitale delle persone fisiche (dal 1974); le rendite delle abitazioni di residenza (dal 2000); la quasi totalità dei redditi dei fabbricati tenuti a disposizione (dal 2012); i canoni di locazione di abitazioni locate (dal 2011), parti di reddito da lavoro dipendente erogate come premio di risultato ai lavoratori dipendenti privati, in base ad accordi aziendali (dal 2008); parti di reddito derivanti dall’utilizzazione economica delle opere d’ingegno e dei diritti d’autore sono esentati da imposta (dal 2008); i redditi derivanti dalle ripetizioni private erogate da docenti (dal 2019); i redditi da lavoro autonomo derivanti da ricavi inferiori a un determinato ammontare (dal 2019, la cosiddetta flat tax degli autonomi, di fatto una estensione del regime dei contribuenti minimi in vigore dal 2008).
Per un allargamento della base imponibile non si ha quindi che l’imbarazzo della scelta: si potrebbe iniziare proprio dalla flat tax degli autonomi, misura di facciata da cui si è timidamente partiti verso la flat tax complessiva solamente perché aveva un costo decisamente contenuto, poco più del preesistente regime dei minimi; e si era ben consapevoli che il percorso verso la flat tax vera e propria si sarebbe arrestato lì, per esigenze di gettito e di equità. Oggi ci è rimasto un sistema ibrido tra dipendenti e autonomi, poco razionale.
Del tax gap riferito all’Irpef, la quasi totalità è imputabile agli autonomi; l’abbassamento delle imposte per questi ultimi non necessariamente incide su una lungimirante emersione di base imponibile, perché molti fattori incidono sulla questione. Ne sa qualcosa il comparto immobiliare: gli appartamenti ceduti regolarmente in locazione erano solamente 2,6 milioni di unità 10 anni fa, contro i 3,4 attuali. Una crescita importante, sicuramente; ma lo è stata perché era basso il numero di partenza, in un paese dove, complessivamente, 2 milioni di immobili presenti in catasto non compaiono poi nelle dichiarazioni dei redditi.
La definizione della base imponibile non è una questione di poco conto: influenza intensamente il concetto di progressività dell’imposta e per questo abbiamo deciso di analizzarla per prima.
La questione delle aliquote
Il secondo pilastro su cui si basa l’Irpef sono le aliquote: si sente parlare solo di queste, come se rappresentassero il cuore dell’imposta. Invece se guardiamo ai dati, per quanto riguarda l’equità, determinano solamente il 40 per cento dell’effetto redistributivo; il rimanente 60 per cento è spiegato dalle detrazioni per lavoro e famiglia, mentre le detrazioni per oneri spesso rosicchiano potere redistributivo. Dal punto di vista dell’efficienza, invece, le aliquote legali vanno valutate assieme alla struttura delle detrazioni per lavoro e famiglia (che sono il terzo pilastro), perché assieme determinano il sistema delle aliquote marginali effettive. Di fatto, oggi, abbiamo un sistema dove, fatta eccezione per la no tax area, prevale una aliquota effettiva nell’intorno del 27-30 per cento per redditi sotto i 28 mila euro e intorno al 41-43 per cento per redditi sopra tale soglia, escludendo le addizionali locali. Un sistema chiaramente non ottimale. Questo dipende, oltre che dalla decrescenza delle detrazioni, anche da una scala delle aliquote legali che presenta un salto di 11 punti percentuali tra il secondo scaglione (aliquota legale del 27 per cento) e il terzo (aliquota legale del 38 per cento). Da qui l’esigenza di intervenire in primo luogo in questa parte della distribuzione. Sul numero di aliquote e scaglioni si deve discutere, è una scelta politica, e va contemperata alla luce dell’intensità della redistribuzione preferita consapevolmente o inconsapevolmente dalla collettività. Un discorso analogo vale per le addizionali regionali e comunali: da una parte, l’ambito discrezionale degli enti locali non è piccolo, formalmente; dall’altro, nell’ultimo ventennio, lo stato ha spesso deciso la sospensione della loro potestà impositiva.
Di fatto, ci sono due modi di vedere il mondo: si può fissare il livello di spesa preferito dalla collettività e tassare di conseguenza; oppure si può fissare un livello massimo di pressione fiscale che non alteri troppo l’efficienza del sistema economico e offrire servizi fino a quel livello. Tutto non si può avere. Su questo aspetto occorre che il sistema politico si interroghi. I numeri dicono che è da tempo arrivato il momento di pensarci: l’efficienza nell’erogazione della spesa non ci colloca ai primi posti in Europa e 110 miliardi di mancate entrate dovute all’evasione suggeriscono che il mondo sarebbe diverso se il senso di moralità pubblica fosse un po’ più elevato. Sarebbe comunque un peccato se la partita della riforma dell’Irpef si risolvesse nella semplice riduzione del numero degli scaglioni da 5 a 3, di cui si è recentemente sentito parlare. Questa è la parte più semplice della riforma, perché molto visibile; ma può essere anche molto costosa.
Temi politicamente scomodi
Un altro tema di grande rilevanza è il ruolo dell’Irpef nel complesso del sistema tributario: mantenerla con il peso attuale, oppure ridimensionarla a vantaggio di altre imposte meno dannose per la crescita economica, come l’imposizione indiretta e sul patrimonio.
Da anni si parla di ridurre il cuneo fiscale per stimolare domanda e offerta di lavoro. Alcune misure per la sua riduzione sono state assunte, in modo improprio: il bonus Renzi prima o poi dovrà essere riassorbito nella struttura dell’Irpef; l’esclusione del lavoro dalla base imponibile Irap ha snaturato l’imposta, originariamente pensata per essere sul valore aggiunto netto.
Chiaramente non è tutto qui. Le questioni aperte rimangono numerose. Occorre, ad esempio, pensare al disboscamento delle detrazioni per oneri, altrimenti i lavori di due commissioni sul tema rimarranno di nuovo nel cassetto, come nel caso della commissione Cottarelli per quanto riguarda la spesa. Bisogna capire come combinare la riforma dell’Irpef con la possibile introduzione dell’assegno unico ai figli, al cui finanziamento darebbero un contributo decisivo l’abolizione delle detrazioni per figli e dell’assegno al nucleo familiare come previsto dal disegno di legge “famiglia” attualmente in discussione. Occorre ripensare alla progressività su reddito-patrimonio e non solo sul reddito: viviamo in un paese dove non è inusuale che un contribuente a basso reddito abbia diverse abitazioni. È povero di reddito, non povero in assoluto. Un altro argomento politicamente scomodo è il ruolo dell’imposta sulle successioni: ha un gettito irrisorio rispetto a quanto avviene in altri paesi.
Ma di questi argomenti si parla poco. Come si parla poco del fatto che negli ultimi decenni abbiamo preferito una giustizia fiscale molto particolareggiata sulla carta (la struttura dell’Irpef è pressoché incomprensibile per i non addetti ai lavori), che ha dato vita a un sistema inutilmente complesso, iniquo anche in termini di tempo che il fisco richiede per ottemperare alle sue richieste e che, di conseguenza, si è dimostrato orizzontalmente e verticalmente inadeguato. Meglio una giustizia fiscale più grossolana, che sia più semplice e che salvaguardi il principio di progressività. Il tempo delle riforme è arrivato. Si aspettano le prime