Tratto da lavoce.info
di Marco Ponti, già professore di Economia dei trasporti ed Economia ambientale, prima a Venezia
e poi per dieci anni come ordinario al Politecnico di Milano
Con l’epidemia di coronavirus il prezzo dei carburanti è decisamente calato, rendendo socialmente accettabile l’introduzione di una carbon tax a livello globale. Nei trasporti ridurrebbe le emissioni climalteranti senza gravare sui bilanci degli stati.
Il coronavirus e il clima
Molto si è scritto e raccontato sul possibile nesso tra il Covid-19 e l’inquinamento: vi è stata una corsa alla pubblicazione ma le evidenze fornite fin qui sembrano esili, se non inesistenti. Per comprenderlo è sufficiente confrontare gli eccessi di mortalità dei primi mesi dell’anno nelle diverse province di Lombardia e Veneto. Aree con livelli di inquinamento identici hanno eccessi di mortalità che variano da 1 a 10 e, viceversa, altre zone con livelli di polveri sottili diversi fanno registrare un quadro sostanzialmente omogeneo.
Il Covid-19 presenta invece caratteristiche comuni con il problema dei cambiamenti climatici: sono questioni planetarie che postulano risposte planetarie. Il virus ha anche generato fenomeni economici e ambientali molto peculiari: il crollo contemporaneo delle emissioni, come non si è mai verificato dal secondo dopoguerra a oggi (un calo del 5,5 per cento, stimano gli scienziati del Global Carbon Project), e dei prezzi delle energie fossili, scese intorno ai 30 dollari al barile di petrolio di riferimento. Una ripresa “business-as-usual” può far perdere una occasione positiva di intervento globale e trasformarla nel suo contrario: il basso prezzo dei fossili può espellere dal mercato molte fonti rinnovabili, nonostante i grandi progressi fatti (in particolare da solare e vento) negli ultimi anni, tanto da avvicinarsi molto, per costi di produzione energetici, a quelli delle fonti fossili pre-Covid.
In perfetta coincidenza, aumenteranno drasticamente in tutto il mondo i fabbisogni di risorse pubbliche.
Allo stesso tempo, si propone da molte e autorevoli fonti (Ursula von der Leyen in Europa e la consulente del nostro presidente del Consiglio Mariana Mazzuccato in Italia) un “green new deal”. Ma il miglior “green new deal” può essere proprio un intervento che risponde al problema finanziario, invece di aggravarlo: una “carbon tax” più universale possibile.
Il doppio dividendo
Una tassa di questo tipo sarebbe innanzitutto socialmente accettabile come mai finora era successo, perché si aggiungerebbe a prezzi eccezionalmente bassi delle fonti fossili, quindi con effetti di shock per ora ridotti. I prezzi finali dell’energia sarebbero destinati ad aumentare lentamente con la ripresa della produzione mondiale.
Un “doppio dividendo” difficilmente ripetibile. I valori annui in gioco per i ricavi sono stimati prudenzialmente dall’Economist (23 maggio 2020) nell’ordine dell’1 per cento del Pil mondiale, cioè circa 800 miliardi di dollari all’anno (stime Banca Mondiale). E con un livello di tassazione molto modesto, di circa 20 dollari per tonnellata di CO2 emessa (nel 2019 sono state emesse all’incirca 400 milioni di tonnellate totali).
I 20 dollari sono un valore lontano da quello di 35 dollari proposto come efficiente dal celebre studio del Fondo monetario internazionale “Getting the prices right”, e molto lontano anche dai 100 euro a tonnellata proposto come valore di riferimento dalla Commissione europea.
Ma è utile ricordare i motivi tecnici per i quali una tassazione delle emissioni di gas climalteranti (CO2 in primo luogo) sarebbe un “first best” rispetto a standard, voucher (“permessi di inquinare”) e sussidi.
Gli standard, per definizione, prescindono dai costi di abbattimento, che possono essere estremamente differenziati tra paesi, settori produttivi e singole imprese. E l’ottimo sociale (massimizzazione del surplus) si ottiene solo minimizzando la somma dei costi ambientali e di quelli di abbattimento. Non dissimili i problemi dei voucher, che postulano mercati locali assai difficili da gestire e di facile manipolazione politica da parte di interessi particolari.
Ancora più ovvio il problema di agire mediante sussidi: con il pesante fabbisogno di risorse pubbliche che ci attende, aumentare la spesa per l’ambiente non sembra una strada percorribile, anche perché tendenzialmente non si creano ritorni finanziari rendendo più “verdi” le produzioni.
Cosa comporterebbe per il settore dei trasporti questo approccio? A scala mondiale, il suo peso relativo sulle emissioni climalteranti è in crescita, a causa di due fenomeni concomitanti: il rapido aumento della motorizzazione nei grandi paesi in via di sviluppo e l’insufficiente tassazione dei carburanti sia in quegli stessi paesi che negli Stati Uniti (in alcuni stati – come Egitto e Venezuela – i prodotti petroliferi sono addirittura sussidiati). Poi, i combustibili fossili nel settore aereo e navale di fatto oggi non sono tassati, rallentando così, per mancanza di incentivi adeguati, il progresso tecnico verso motorizzazioni meno inquinanti.
L’Europa (e il Giappone) presentano invece uno scenario opposto: il loro peso nel totale delle emissioni inquinanti nei trasporti terrestri è già basso, grazie all’azione combinata di standard e fiscalità, e se ne prevede un ulteriore declino. L’avvento di una carbon tax farebbe emergere l’elevato livello di “internalizzazione” già in atto per via fiscale nel settore – un livello molto più alto rispetto ad altri settori inquinanti (vedi Oecd e lo studio Fmi), alcuni dei quali addirittura sussidiati, come l’agricoltura. Ma sarebbe anche una straordinaria occasione per accelerare lo sviluppo di mezzi di trasporto meno inquinanti. L’obiettivo primario dovrebbe essere rivolto alle esportazioni, in un mercato internazionale che genererà una domanda assai più elevata di tali mezzi, soprattutto ovviamente quelli che possono essere interamente pagati dagli utenti, senza la necessità di intervenire con ulteriori risorse pubbliche.
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