Tratto da lavoce.info
di Angelo Baglioni, professore ordinario di Economia Politica presso l’Università Cattolica di Milano, Facoltà di Scienze Bancarie, Finanziarie e Assicurative
Le misure di sostegno pubblico hanno finora protetto il settore bancario dagli effetti della pandemia. Ma i rischi ci sono e prima o poi andranno affrontati. Meglio correggere subito il valore dei crediti e non distribuire generosi dividendi.
Un mare di liquidità contro la crisi
Che impatto ha avuto la crisi in corso, scatenata dal Covid-19, sulle banche italiane? In quale stato usciranno dal tunnel della pandemia? L’ultimo Rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia ci dà un quadro aggiornato della situazione, dal quale emergono luci e ombre.
La sintesi è che le misure adottate dalla Banca centrale europea e dal governo hanno consentito al sistema delle imprese e delle banche di reggere l’urto della crisi, ma si stanno accumulando alcuni nodi che prima o poi verranno al pettine. Il settore finanziario è stato inondato di liquidità, di garanzie pubbliche e di moratorie che hanno consentito di rinviare il momento in cui bisognerà prendere atto della realtà: le banche stanno diventando più rischiose e meno redditizie. È bene che si attrezzino rafforzando il patrimonio: alcune lo stanno già facendo, ma non tutte. Sarebbe anche bene non avere troppa fretta nel distribuire dividendi agli azionisti.
La politica monetaria ultra-accomodante della Bce ha sommerso le banche di liquidità, non solo tramite le operazioni di acquisto di titoli, ma anche con i prestiti a lungo termine. Tra marzo e settembre, il ricorso delle banche italiane al rifinanziamento presso la banca centrale è aumentato di 107 miliardi di euro, arrivando così a 367 miliardi. Ciò ha determinato un accumulo di riserve in eccesso rispetto alla riserva obbligatoria, detenute sui conti presso la banca centrale, di oltre 200 miliardi. A loro volta, le banche hanno mantenuto politiche di prestito distese pur in un periodo così difficile: il debito bancario delle imprese medio-grandi e di quelle più piccole è cresciuto complessivamente del 6,9 per cento nei dodici mesi terminanti a settembre, a fronte di una sostanziale stabilità nel triennio precedente. Le imprese hanno in parte utilizzato i prestiti per accumulare riserve liquide, detenute nei loro depositi presso il sistema bancario: è aumentata così l’incidenza dei depositi delle imprese nella raccolta bancaria. Il problema della liquidità, che era ritenuto quello più urgente nella prima fase di lockdown da Covid-19 (marzo-aprile), sembra essere superato (tranne forse nei settori turismo e ristorazione): a settembre solo il 9 per cento delle imprese intervistate dalla Banca d’Italia lamentava una insufficienza di disponibilità liquide.
Rischio di credito: bomba a orologeria
Con la seconda ondata di pandemia, il problema non è la liquidità, ma il rischio di credito che si va accumulando nei bilanci delle banche. Per la verità, parte del rischio è stato scaricato sul bilancio pubblico. Tra marzo e settembre i prestiti alle imprese sono aumentati di 58 miliardi. I prestiti assistiti da garanzie pubbliche (rilasciate dal Fondo di garanzia per le piccole e medie aziende e dalla Sace per le grandi imprese) hanno raggiunto i 90 miliardi a settembre. Sembra quindi che le banche siano riuscite ad accollare al settore pubblico non solo il rischio relativo ai nuovi prestiti, ma anche quello relativo a prestiti già in essere, sostituendo in parte quelli esistenti con i nuovi garantiti dallo stato. Il risultato è che l’11,2 per cento della consistenza dei prestiti bancari alle imprese risulta coperta dalla garanzia pubblica (dato di fine settembre). Resta però tutto il resto, quasi il 90 per cento dei prestiti: qui si nasconde la bomba a orologeria generata dal rischio di credito.
Se guardiamo a un indicatore classico per valutare l’evoluzione del rischio di credito, cioè il rapporto tra il flusso dei nuovi crediti deteriorati e i prestiti in bonis, sembra che vada tutto bene: continua a ridursi, anche nel terzo trimestre di questo infernale 2020. Peccato che questo andamento sia in gran parte riconducibile alle moratorie, che hanno rinviato la presa d’atto sul vero stato di salute dei debitori. Quasi un quarto dei prestiti alle imprese beneficia di una moratoria. Poi ci sono le misure di sostegno al reddito delle famiglie e alle imprese, oltre a una certa flessibilità concessa dalle autorità nella classificazione dei prestiti deteriorati. Sono tutte misure di sostegno temporaneo: utili per sopravvivere nella tempesta della pandemia, ma che prima o poi verranno rimosse. La legge di bilancio 2021 prevede la proroga delle garanzie e delle moratorie fino al giugno prossimo, ma non si potrà andare all’infinito. È facile prevedere una impennata dei crediti deteriorati nel momento in cui le varie misure di sostegno pubblico verranno via via rimosse.
Naturalmente, le banche sono consapevoli del problema e molte si stanno attrezzando. Metà delle banche (che rappresentano il 75 per cento dei prestiti del sistema bancario italiano) hanno aumentato il tasso di copertura dei prestiti in bonis: hanno cioè cominciato a prendere atto che il loro valore è destinato a ridursi e ne hanno già in parte rettificato il valore in bilancio. Diverse banche però, soprattutto quelle di minore dimensione, stentano a riconoscere la situazione e presentano tassi di copertura molto inferiori alla media del sistema. Fanno così perché (ovviamente) rettificare subito il valore dei crediti ha un costo: riduce la redditività. Ma stanno solo rinviando il momento in cui affrontare il problema. Prima o poi il rischio di credito presenterà il suo conto e il costo del rischio andrà pagato.
Patrimonio e dividendi
Il sistema bancario italiano rimane nel complesso solido: il rapporto tra capitale primario e attivo ponderato per il rischio (Cet1 ratio) ha raggiunto il 14,8 per cento, crescendo di 80 punti base nel primo semestre di quest’anno e allineandosi a quello delle altre banche europee. A ciò ha contribuito la raccomandazione delle autorità (Bce e Banca d’Italia) di non distribuire dividendi, accantonando così gli utili maturati nel 2019, per rafforzare il patrimonio. La raccomandazione è in vigore fino alla fine di quest’anno. Speriamo di non assistere, dopo questa data, a un “liberi tutti” in cui gli azionisti vengano premiati con un doppio dividendo, a valere sugli utili del 2019 e del 2020. Sarebbe un comportamento miope, alla luce dei problemi che stanno covando sotto la cenere dei bilanci bancari. Si dirà che gli investitori vogliono essere remunerati: forse però è possibile spiegare loro che è meglio anteporre la solidità al ritorno immediato.