di Mariano Bella, Ufficio Studi Confcommercio.
Sofia Felici, Ufficio Studi di Confcommercio
e Luciano Mauro, laureato in Economia all’Università degli Studi di Trieste
Parte dello spread sui rendimenti dei titoli pubblici è ascrivibile a un deficit sistematico di credibilità delle politiche italiane di riduzione del rapporto debito-Pil. Promesse meno ambiziose farebbero risparmiare miliardi di spesa per interessi.
La misura della credibilità
Tutti parlano di (scarsa) credibilità delle nostre politiche pubbliche. e con qualche ragione. Per esempio, negli ultimi tempi il futuro del nostro rapporto debito-Pil è scomparso dal dibattito politico-mediatico. La cosa ci preoccupa. Ad altri fa un effetto diverso: ne stimola la fantasia verso soluzioni miracolistiche che verranno fuori quando del tema si tornerà a discutere (ed è sicuro che succederà).
Abbiamo perciò pensato di costruire una variabile di “credibilità”, misurabile semplicemente attraverso lo scarto tra le previsioni del rapporto debito-Pil contenute nei documenti ufficiali dei vari paesi (Stability Programme) e i dati reali di quel rapporto nel corso del tempo. Il nostro obiettivo è spiegare lo spread nel medio-lungo termine sulla base di poche variabili economiche e, appunto, dell’effetto “credibilità”.
Per costruire la variabile credibilità in modo oggettivo siamo partiti dai quattro grafici presentati in figura 1. Rappresentano le promesse fatte dalle istituzioni di quattro paesi – Italia, Spagna, Portogallo e Germania – sull’evoluzione prospettica desiderata (cioè, promessa) del rispettivo rapporto debito-Pil. Nelle figure, per ciascun paese, sono indicate le previsioni del rapporto debito-Pil contenute nei vari documenti ufficiali rispetto alle realizzazioni (linea continua); le previsioni contenute nei diversi Stability Programmes si riferiscono a documenti redatti dal 2009 al 2018 (linee tratteggiate, da sinistra a destra).
L’opinione pubblica italiana è parzialmente consapevole solo delle indicazioni contenute nel grafico relativo all’Italia e cioè che, sistematicamente, nei documenti ufficiali (oggi Documento di economia e finanza) si sottostima la dimensione futura del rapporto debito-Pil: questo cela la mancanza di disciplina fiscale, che è misurata proprio dallo scarto tra il dato storico osservato e il corrispettivo dato previsionale contenuto nei documenti di programmazione economica e finanziaria.
Nota: la linea continua indica il rapporto osservato debito-Pil; le linee tratteggiate indicano le previsioni del rapporto debito-Pil, per gli anni indicati, a partire dai documenti ufficiali che sono stati redatti nel corso del tempo. Elaborazioni su dati Stability Programme nazionali (vari anni) inoltrati alla Commissione europea dai ministri di Economia e Finanze dei paesi Uem.
Il problema è che si trascurano gli analoghi grafici per gli altri paesi, dai quali, invece, si rileva che l’errore commesso dai nostri partner è in generale più ridotto, quasi nullo o addirittura di segno opposto per la Germania e diventa molto esiguo anche per paesi con storiche difficoltà di finanza pubblica, come Spagna e Portogallo.
Le curve, infatti, non sono altro che la rappresentazione di previsioni economiche che, pur contenendoovviamente margini di errore, sintetizzano obiettivi e misure di policy.
Il confronto neutralizza il significato della possibile obiezione che l’Italia è costantemente nel braccio preventivo del Patto di stabilità e crescita, ovvero vincolata a perseguire una condotta sostenibile e “correttiva” di valori fiscali eccessivi, nel medio-termine. Anche Spagna e Portogallo sono nella medesima situazione (ma la gestiscono meglio): emerge, piuttosto, quanto il nostro paese sia incline a formulare previsioni incoerenti rispetto agli sforzi profusi per realizzarle.
A questo punto, si capisce che la cedibilità che conta per un investitore non è quella data dall’errore sistematico commesso da ciascun paese bensì dallo scarto tra gli errori che ciascuno commette rispetto a un benchmark.
Definiamo la credibilità (delle promesse istituzionali) come
Ci,t=[((D/PIL)t-1,SPt-2-(D/PIL)t-1)/(D/PIL)t-1]i-[((D/PIL)t-1,SPt-2-(D/PIL)t-1)/(D/PIL)t-1]Germania
dove un prenditore del debito pubblico del paese “i” in un determinato anno “t” chiederebbe un eccesso di rendimento rispetto a un benchmark anche in funzione dell’osservazione di quanto sia stata mantenuta la promessa sul rapporto debito-Pil al tempo t-1. Ma la promessa è stata formulata al tempo t-2. In altre parole: se nel 2018 si vuole acquistare debito italiano, oltre la parte economica del modello di decisione, si valuterà di quanto il potenziale creditore ha sbagliato al tempo immediatamente precedente, cioè nel 2017. Per stabilirlo si deve considerare la promessa del debitore: quella relativa al 2017 è stata formulata nei documenti ufficiali (SP) redatti nell’anno 2016.
Poiché gli errori commessi sul rapporto debito-Pil – e quindi gli scarti rispetto alla Germania – dipendono dalla grandezza dello stesso rapporto, la differenza nella nostra variabile “credibilità” viene formulata in termini di percentuale rispetto al livello dello stesso rapporto. I risultati di tre modelli in competizione sono sintetizzati nella tabella 1.
Nota: regressioni Ols con effetti fissi; il numero di osservazioni per ciascuna regressione è 108 (12 paesi (euro) x 9 anni (2011-2019)); in parentesi le statistiche student-t basate sugli errori standard robusti per l’eteroschedasticità; un valore della statistica student-t superiore a 2-2,5 indica significatività del parametro cui si riferisce; in ciascuna delle tre regressioni è presente la medesima variabile dummy che seleziona 4 osservazioni: Portogallo 2011 e 2012, Irlanda 2011 e Irlanda 2015; le prime tre presentano valori eccezionalmente elevati della variabile dipendente (spread a oltre 600 nella media degli anni e dei paesi indicati); l’osservazione relativa all’Irlanda del 2015 appare anomala perché la variazione del Pil ha assunto un valore eccezionalmente grande (+23% circa in termini reali).
I risultati dei nostri esercizi sono piuttosto robusti, come testimonia la stabilità del valore della costante (se presente la dipendente ritardata, il valore del parametro di lungo periodo è pari al coefficiente diviso 1 meno il parametro della dipendente ritardata).
Il rapporto debito-Pil è scarsamente significativo. Il risultato indica che gli acquirenti dei titoli pubblici guardano meno allo status quo e di più alle prospettive economiche di crescita, nei nostri esercizi catturati dal tasso di variazione del Pil reale (che in assenza di significativi processi di riforma strutturale è un buon previsore della crescita). Ogni punto percentuale di crescita in eccesso rispetto alla Germania riduce lo spread di 15-16 punti base.
Ogni punto d’inflazione in eccesso rispetto al benchmark aumenta lo spread tra 15 e 33 punti base. Nella stessa area valutaria, chi acquista reddito fisso è parecchio sensibile ai differenziali d’inflazione, visto che massimizza qualche funzione che ha come argomento il potere d’acquisto e non la carta (moneta).
Infine, un ruolo di un certo spessore è giocato dalla variabile “credibilità” delle promesse. Il senso di questa grandezza è che gli investitori affinano le loro convinzioni basate sulle variabili economiche anche sulla scorta dell’entità degli errori commessi dai singoli emittenti sovrani sul rapporto debito-Pil. È meglio, quindi, ridurre l’ambizione delle promesse e attenersi a strategie che ne avvicinino la realizzazione, invece di suggerire nei documenti ufficiali inverosimili percorsi di rientro che non si realizzano.
L’aspetto rilevante è la sistematicità dell’errore per l’Italia. Come visto a proposito della figura 1, anche Spagna e Portogallo ne hanno commessi, per un certo periodo. I loro errori, però, non si riproducono nel tempo con un andamento prevedibile: diminuiscono e diminuisce il rapporto debito-Pil, circostanza che non si è verificata per l’Italia.
La tabella 1 indica che per ogni punto di scarto tra gli errori percentuali sul rapporto debito-Pil rispetto agli errori della Germania (praticamente nulli) lo spread cresce mediamente di 3 punti base. Non è poco. Secondo il nostro esercizio, ogni punto di mancata credibilità implica per tutta la durata del titolo un eccesso di rendimento che, moltiplicato per il monte titoli rinnovato ciascun anno, fornisce un incremento della spesa per interessi che attualmente si collocherebbe poco sotto i 5 miliardi di euro, per effetto dell’accumulo dell’eccesso di rendimento nel corso del tempo.
È una spesa è del tutto inutile e la si sarebbe potuta risparmiare semplicemente con la redazione di previsioni più credibili di quanto fatto.