Tratto da lavoce.info
di Massimo Bordignon, professore ordinario di Scienza delle Finanze presso l’università Cattolica di Milano
Il Piano di ripresa e resilienza è ben fatto. Ma tanti sono i progetti da realizzare e le risorse da spendere in poco tempo. Trovare la governance adatta ed evitare i rischi di possibili fibrillazioni politiche richiede un consenso ampio nella società.
Gaudete omnes, habemus planum! È stato finalmente presentato (in bozza) al Consiglio dei ministri il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) che specifica come l’Italia intende spendere i soldi che saranno messi a disposizione del paese dal Next Generation-EU (NG-EU) nei prossimi sei anni. Una volta approvato dal Consiglio dei ministri, verrà presentato in Parlamento e poi formalmente in Europa, anche se da un punto di vista informale i contatti tra i nostri tecnici e la task force istituita nella Commissione vanno avanti da mesi. E infatti non si capisce bene perché il governo ci sia rimasto seduto sopra così a lungo, secretandone i contenuti e prendendosi continue critiche sui ritardi, quando in realtà si sapeva che il lavoro del comitato tecnico (Ctv) incaricato di predisporlo per conto del Comitato interministeriale per gli Affari europei era già molto avanti.
La lettura delle 125 pagine del Pnrr suscita due impressioni contrastanti. Primo, il Piano è ben fatto e coerente al proprio interno. Individua correttamente le molte debolezze del sistema Italia e specifica come le risorse del NG-EU possano contribuire a risolverle. Alcune proposte restano vaghe, ma nella maggior parte dei casi il Piano è abbastanza concreto, si capisce cosa si intende fare. I contenuti più specifici – come il riparto dei fondi per grandi aeree – verranno ora giustamente sottoposti a esame critico da parte del Parlamento, ma l’impressione generale è favorevole. La seconda impressione, però, nasconde un timore: speriamo che non si tratti solo di un libro dei sogni. Se i sogni diventeranno realtà, dipenderà molto dalla capacità di gestione del Pnrr.
I contenuti del Piano di ripresa e resilienza
Vediamo prima qualche dettaglio del piano. Il Pnnr pianifica di spendere 209 miliardi di euro entro il 2026, di cui 193 dalla Recovery e Resilience Facility (Rrf) e il resto da altri fondi europei previsti nel NG-EU (React EU e Just Transition Fund). Dei 193 miliardi della Rrf, 65 sono sovvenzioni e 128 prestiti. Come del resto già chiarito nella Nadef (nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza) prima e nella legge di bilancio dopo, il Pnrr prevede di usare tutti i soldi delle sovvenzioni (i 65 della Rrf più quelli degli altri fondi, circa 80 miliardi) per finanziare “spesa addizionale”, mentre solo una parte dei prestiti verrà usata a tal scopo. La parte restante servirà a finanziare “spesa già prevista”, sia pure almeno in teoria sempre in linea con i criteri del NG-EU.
Tutto ciò, naturalmente, è il risultato di un compromesso raggiunto con la Commissione. Poiché le sovvenzioni sono debito a carico del bilancio europeo, il compromesso riduce la pressione su quello italiano (solo 30 miliardi circa saranno “debito in più”), ma ha lo svantaggio di diluire l’effetto espansivo che le risorse europee, in quanto aggiuntive, avrebbero potuto dare all’economia italiana. In più, altro elemento di compromesso, mentre una parte rilevante delle risorse andranno in investimenti, un’altra parte finanzierà una tantum spesa corrente o riduzioni nella pressione fiscale, sebbene sempre in progetti in qualche modo legati al Piano. Per esempio, una buona parte delle risorse, immediatamente disponibili, del React EU, circa 10 miliardi, serviranno per finanziare la fiscalità di vantaggio al Sud nei prossimi anni.
Come verranno impiegati i soldi della Rrf? Il Piano è articolato in sei missioni, a loro volta suddivise al loro interno. In linea con le indicazioni europee, 49 miliardi saranno impiegati per la “digitalizzazione” (di cui 10 per la digitalizzazione della pubblica amministrazione e 35 per sostenere l’innovazione digitale e l’internazionalizzazione delle imprese), 74 per la “transizione ecologica” (di cui 40 per la riqualificazione degli edifici e 9 per le risorse idriche), 28 per la “mobilità sostenibile” (di cui 24 per l’alta velocità e un piano straordinario di manutenzione stradale), 19 per “istruzione e ricerca”, 17 per “parità di genere e coesione sociale e territoriale” e (solo) 9 per la sanità, in particolare per l’assistenza di prossimità e la telemedicina.
Va anche detto che l’utilizzo dei soldi è solo una parte del Pnrr. Il Piano richiede anche l’approvazione di numerose riforme legislative che dovrebbero accompagnare l’uso delle risorse e renderlo efficace. Per esempio, in linea con le raccomandazioni europee all’Italia, il documento si apre con una dettagliata proposta di riforma del sistema giudiziario, già presentata in Parlamento, in particolare per quello che riguarda la giustizia civile. Altre riforme sono previste sul sistema tributario, sul mercato del lavoro e così via.
Usando il modello di simulazione della Commissione, il governo stima in 2,4 per cento l’incremento cumulato del Pil che si otterrebbe nel 2026 dall’attuazione del Pnrr. Ma è chiaro che se davvero riuscissimo a realizzarlo nei tempi previsti, gli effetti sarebbero probabilmente maggiori: per esempio, nelle stime si considerano solo gli effetti moltiplicativi della spesa e non l’impatto delle riforme.
Come realizzare i progetti
La domanda vera è come riusciremo a realizzare tutti i progetti e a spendere tutti i fondi nei tempi previsti. Una parte rilevante delle risorse (il 70 per cento per le sovvenzioni del Rrf) devono essere spese entro il 2023; tutti i progetti devono essere approvati entro quell’anno e le risorse spese entro il 2026. Per fare un confronto, negli ultimi sette anni siamo riusciti a impegnare solo il 40 per cento dei 40 miliardi previsti nell’ultima programmazione dei fondi strutturali europei
Il governo propone di risolvere il problema attraverso l’introduzione di uno specifico meccanismo di governance. Ogni missione verrebbe affidata a un “responsabile”, con poteri di tipo commissariale, affiancato da una struttura tecnica apposita; il controllo politico verrebbe assegnato a un comitato di indirizzo, composto dal presidente del Consiglio, il ministro dell’Economia e quello dello Sviluppo economico, mentre il ministro per gli Affari europei sarebbe il referente unico (figura prevista nelle linee guida della Commissione) a livello europeo per l’attuazione del Piano. Il problema con questa struttura piramidale è che deresponsabilizza i ministeri di spesa nelle cui attività normali rientrano quelle previste dal Pnrr. Se non si occupano della attuazione del Piano, non si capisce bene che cosa dovrebbero fare nei prossimi cinque anni questi ministri. È un aspetto sul quale un maggior coordinamento va trovato.
L’ultima questione – forse quella cruciale – è che il Piano sarà attuato nel prossimo quinquennio, un periodo nel quale ci si può aspettare che l’Italia abbia 3 o 4 governi differenti, probabilmente di orientamento politico diverso. Se non si vuole che tutto venga rimesso in discussione a ogni fibrillazione politica, è necessario che il Pnrr venga discusso – e trovi il massimo consenso – non solo tra le forze politiche, ma anche, più in generale, nella società civile e tra le forze sociali.