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Home Economia

Economia. Perché i crediti deteriorati sono un problema

Redazione di Redazione
16 Ottobre 2020
in Economia
Tempo di lettura : 3 minuti necessari
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Tratto da lavoce.info

Brunella Bruno,
e Elena Carletti, professoressa di Finanza all’Università Bocconi

Con la pandemia e il rallentamento economico, si sono riaccese le preoccupazioni sui crediti deteriorati nei portafogli delle banche. È necessario trovare un difficile bilanciamento tra sostegno all’economia e stabilità finanziaria.

I rischi delle banche

Uno dei temi più ricorrenti nel dibattito sugli effetti economici del Covid-19 riguarda l’impatto sull’attività delle banche. Ciò che preoccupa è che il rallentamento economico causato dalla diffusione della pandemia possa aumentarne la rischiosità, attraverso un’impennata dei cosiddetti non-performing loans (Npl).

Secondo la definizione di Banca d’Italia, i non-performing loans sono crediti nei confronti di soggetti che non sono in grado di adempiere le proprie obbligazioni contrattuali. All’interno dell’aggregato esistono diverse componenti. Quella meno rischiosa è la categoria dei prestiti scaduti, che corrisponde a prestiti nei confronti di debitori in ritardo nei pagamenti per oltre 90 giorni. Seguono, in ordine di rischiosità, le inadempienze probabili, ovvero crediti erogati a debitori le cui difficoltà di rimborso potrebbero in teoria essere superate attraverso la ristrutturazione del debito o la concessione di nuova finanza; e infine le sofferenze, ovvero esposizioni nei confronti di controparti insolventi. La distinzione è importante, perché a parità di Npl, la composizione definisce quanto deteriorato è il portafoglio prestiti della banca.

È nel Dna delle banche gestire il rischio di credito e con esso una certa quantità di crediti deteriorati: il processo di concessione del credito, infatti, non si esaurisce nella fase di istruttoria ed erogazione, ma prevede fasi successive: dal monitoraggio periodico, alla gestione del contenzioso, nel caso in cui una parte dei prestiti erogati divenisse appunto non-performing.

Perché allora il tema degli Npl è diventato, negli ultimi anni, oggetto di dibattito? Innanzitutto, per l’entità del fenomeno: all’indomani della crisi del debito sovrano, il volume di prestiti deteriorati nel bilancio delle banche nell’area euro era circa 1 trilione, pari a oltre il 9 per cento del relativo Pil. Di questo importo, circa un terzo era detenuto da banche italiane, metà del quale rappresentato da sofferenze.

La dimensione del fenomeno, insieme al timore che la crisi di una banca si potesse ripercuotere su altri istituti e da qui sull’economia reale, ha stimolato numerosi interventi da parte delle autorità di supervisione bancaria, Banca centrale europea su tutte. Basta ricordare le linee guida per la gestione dei prestiti non-performing del marzo 2017, che hanno delineato per la prima volta norme di comportamento comuni e buone pratiche; e le indicazioni relative alle politiche di accantonamento del marzo 2018, introdotte allo scopo di favorire una più tempestiva e progressiva procedura di accantonamento dei nuovi Npl. A partire dal gennaio 2018, si è aggiunto un nuovo standard contabile (Ifrs 9), in virtù del quale la banca è chiamata ad accantonare e svalutare i crediti in base alla perdita “attesa” e non più “subita”.

Nel complesso, le nuove regole avevano l’obiettivo di accelerare la pulizia dei bilanci bancari tramite più rapidi accantonamenti e conseguente smaltimento dei prestiti deteriorati. E l’obiettivo è stato raggiunto: le banche dell’area euro avevano ridotto il volume di Npl a meno di 600 miliardi nel marzo 2019, anche se con differenze significative tra i singoli istituti.

Gli effetti della pandemia

La pandemia, con il forte rallentamento economico che ne è conseguito, ha riportato l’attenzione sul tema degli Npl. Le moratorie e le garanzie pubbliche hanno finora tenuto sotto controllo gli effetti recessivi per il sistema bancario, assicurando al contempo il flusso creditizio all’economia reale. Tutto ciò non deve però comportare una sottovalutazione del problema: le banche devono gradualmente far emergere il deterioramento dei loro prestiti e procedere con accontamenti adeguati. Senza tale riconoscimento, il rischio è che il problema scappi di mano e ci si ritrovi, più o meno improvvisamente, con un volume di Npl addirittura superiore a quello manifestatosi dopo la crisi del debito sovrano.

D’altra parte, è giusto anche riconoscere che le nuove regole di gestione dei crediti deteriorati sono nate in un contesto economico alquanto diverso da quello attuale, dove le banche si ritrovano, al pari delle imprese, a dover gestire uno shock inatteso e a loro estraneo. Una rigida applicazione di regole per loro natura pro-cicliche potrebbe tradursi in una crescita repentina nei bilanci bancari dei volumi di Npl e degli accantonamenti, con possibili effetti negativi sull’erogazione del credito.

Da questo quadro emerge il bisogno di un difficile bilanciamento tra l’esigenza di sostenere l’economia e quella, imprescindibile, di presidiare la stabilità finanziaria.

In questo contesto, diventa importante anche rafforzare il quadro istituzionale, in modo da agevolare il lavoro di smaltimento dei crediti deteriorati. Nel caso dell’Italia, per esempio, gioca un ruolo rilevante la lentezza delle procedure di recupero legale del credito. Un’azione incisiva in questa direzione sarebbe condivisa da banchieri e supervisori, giovando alla causa dello smaltimento dei crediti deteriorati e rendendo le nuove regole del gioco meno penalizzanti per le banche.

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