Tratto da lavoce.info
di Tommaso Monacelli, professore ordinario di Economia all’Università Bocconi di Milano
Quantitative easing e monetizzazione del debito sono profondamente diversi per natura e obiettivi. E soprattutto il secondo porterebbe alla perdita di uno dei beni pubblici più importanti dell’Europa di oggi: l’indipendenza della banca centrale.
Due strumenti per lo stato
Quando uno stato deve finanziare le proprie spese (scuole, strade, ospedali) può ricorrere a due strumenti: emettere debito o incrementare la tassazione. Sotto certe condizioni, i due strumenti sono equivalenti. Le risorse che lo stato raccoglie con maggior debito assorbono il risparmio privato, che potrebbe essere indirizzato ad altri usi (finanziare le imprese). In più, se gli agenti economici sono lungimiranti, anticipano che maggiore debito oggi significherà più alta tassazione futura, e perciò incrementano subito il loro risparmio precauzionale. Questi effetti tendono ad attenuare l’effetto espansivo sull’economia derivante da più spesa pubblica.
Non necessariamente, però, il maggior debito deve essere finanziato da risorse prese a prestito dal settore privato. L’emissione di titoli potrebbe essere assorbita dalla banca centrale, che li acquisterebbe emettendo base monetaria (cioè riserve).
L’importante differenza è che nel caso di finanziamento monetario del debito non si verificano né lo spiazzamento dell’investimento privato né l’effetto di aumento del risparmio privato (in previsione di maggiore tassazione futura). Potenzialmente, quindi, il finanziamento monetario delle nuove emissioni di debito produce il massimo effetto espansivo della spesa pubblica.
Perché dunque non procedere sempre così? Immaginiamo una banca centrale che si impegni oggi ad acquistare ogni nuova emissione di debito dello stato. Così facendo, rinuncia completamente a gestire la quantità di moneta emessa nel sistema economico. Gli agenti capirebbero facilmente che la banca centrale non avrebbe l’autonomia operativa, ad esempio, per contrarre la quantità di moneta in circolazione quando l’economia esibisse spinte inflazionistiche. Quindi, nel regime di finanziamento monetario, non solo la banca centrale alimenterebbe l’effetto inflazionistico di maggiore spesa pubblica, ma quell’effetto verrebbe amplificato dal lievitare delle aspettative di inflazione.
L’indipendenza delle banche centrali
La teoria economica ha compreso molto bene il punto e non è un caso che la conduzione della politica monetaria sia stata negli ultimi decenni svincolata da quella della politica fiscale. L’idea chiave dell’indipendenza della banca centrale ha posto le basi – nei paesi avanzati, ma gradualmente anche in molti paesi in via di sviluppo – per una riduzione permanente del livello di inflazione rispetto agli alti e costosi livelli degli anni Ottanta e Novanta. Una lezione che pare dimenticata.
Oggi è infatti molto diffusa l’idea che le recenti politiche di acquisto di titoli di stato da parte della Banca centrale europea (il cosiddetto Quantitative easing) equivalgano a un finanziamento monetario del debito. Per giunta, si dice, senza che abbia dato alcun segno di incremento dell’inflazione in Europa. Il finanziamento monetario del debito sarebbe dunque possibile senza alcun costo inflazionistico.
In realtà, il Qe è cosa ben diversa dal finanziamento monetario del debito. Mentre il secondo consiste in un impegno permanente ad acquistare i titoli di stato emessi dallo stato (e a tenerli sul proprio bilancio), il primo ha per costruzione una natura temporanea. Nessuna banca centrale che abbia operato con il Qe negli ultimi anni ha mai segnalato, in alcun modo, che i titoli di stato acquistati sarebbero stati mantenuti sul bilancio in via permanente. È un aspetto cruciale, eppure sempre ignorato nel dibattito comune. Non è un caso che la Bce non abbia mai preso alcun vincolo ad acquistare titoli di stato dei paesi europei precludendosi la possibilità di rivenderli (seppur gradualmente) in futuro. In altre parole, la banca centrale utilizza il Qe come strumento non convenzionale di politica monetaria in un quadro di piena autonomia dalla politica fiscale. Autonomia, cioè, di decidere in futuro di rivendere quei titoli per regolare la massa monetaria in circolazione quando l’inflazione dovesse ricominciare a crescere. La stessa cosa vale per il Giappone, spesso indicato come esempio virtuoso in cui la banca centrale sta acquistando quote crescenti del debito pubblico.
Si noti qui un punto sottile. Molti osservatori superficiali cantano le lodi del Qe giapponese come presunto esempio di monetizzazione del debito esente da costi inflazionistici. Ma il fatto che il Qe non determini inflazione è in realtà negativo. Perché il Giappone, proprio come l’Europa, si trova bloccato in una trappola della liquidità, in cui lo strumento principe della politica monetaria, il tasso di interesse nominale, è vincolato al limite zero. In tale situazione, la politica monetaria è impotente. Una delle strade è cercare di stimolare le aspettative di inflazione per comprimere al ribasso i tassi di interesse reali e spingere così al rialzo consumi e investimenti.
Decantare le lodi del Qe perché permetterebbe di espandere la quantità di moneta senza costi inflazionistici è dunque come felicitarsi del suono roboante di un martello che pesta invano nell’acqua.
La natura e l’obiettivo del Qe sono profondamente diversi da un regime di monetizzazione del debito. Con il Qe l’obiettivo della banca centrale è di raggiungere un rialzo graduale, ma contenuto, dell’inflazione, in linea con il target. Mantenendo l’autonomia di regolare la massa monetaria in futuro quando l’inflazione dovesse ricominciare a crescere. La monetizzazione del debito non porterebbe ad altro, prima o poi, che a una perdita di controllo sull’andamento dell’inflazione (una tassa regressiva che colpisce innanzitutto i più poveri). E soprattutto porterebbe alla perdita di uno dei beni pubblici più importanti che l’Europa possiede oggi: l’indipendenza della banca centrale.