Tratto da lavoce.info
di Michele Polo, professore Ordinario di Economia Politica presso l’Università Bocconi
L’accordo tra Tim e Cdp può finalmente sbloccare la situazione delle reti di telecomunicazione. E la creazione di un’unica rete fissa ultrabroadband sembra una scelta razionale. Restano però da definire molti aspetti. A partire dal ruolo dello stato.
Una partita a scacchi nelle telecomunicazioni
L’accordo tra Tim e Cassa depositi e prestiti, su cui il governo ha espresso il proprio gradimento, sembra finalmente sbloccare la situazione delle reti di telecomunicazione, aprendo la strada al conferimento delle infrastrutture di Tim e di OpenFiber a un nuovo soggetto societario, Fibercop, e a una unica rete ultrabroadband in Italia, sulla cui compagine azionaria e governance si sovrappongono giornalmente nuove indiscrezioni.
La complessa vicenda tende a essere rappresentata attraverso le mosse dei diversi contendenti, i ministri responsabili della materia, il management delle società interessate, alcuni grandi fondi infrastrutturali internazionali e, apparentemente sullo sfondo, le autorità di regolazione e antitrust italiane e la Direzione generale della concorrenza di Bruxelles, in una partita a scacchi dove il lettore tende a perdersi. Val la pena quindi di riportare la questione alle sue componenti essenziali.
Innanzitutto, di cosa stiamo parlando. Una rete di telecomunicazione è costruita a vari livelli gerarchici: dalle abitazioni e uffici degli utenti fino alle cabine (rete secondaria), poi da queste alle stazioni (rete primaria), componendo la cosiddetta rete di accesso, proseguendo per i nodi di aggregazione tra stazioni e le dorsali. Nelle infrastrutture tradizionali, la rete di accesso (primaria e secondaria) è costruita in rame, mentre la fibra opera sui livelli superiori. Una rete ultrabroadband sostituisce la rete primaria con la fibra (fiber to the cabinet: FttCab) o estende la fibra anche alla secondaria (fiber to the building/home: FttB/FttH), e consente la connessione a velocità elevate (almeno 30 megabyte per secondo) e quindi l’utilizzo di una molteplicità di servizi oggi principalmente veicolati nell’universo di Internet. Gli operatori (Tim, Vodafone, Windtre, Fastweb e tutti gli altri) che vendono servizi di telecomunicazione su rete fissa al pubblico debbono passare necessariamente per questa rete, pagando per il suo utilizzo.
Nel caso di Tim, per realizzarla occorre sostituire le connessioni nella rete primaria (FttCab) o anche secondaria (FttH/FttB) con la fibra e i nuovi apparati. Openfiber, invece, sta sviluppando una infrastruttura nuova integralmente in fibra e con architetture non vincolate dalla topologia della rete preesistente. Si tratta di investimenti costosi poiché richiedono lo scavo e la posa delle nuove linee sul territorio, oltre alla predisposizione di nuovi apparati.
Da quanto è noto finora, Fibercop diverrà il veicolo societario cui Tim conferirà la propria rete secondaria con l’obiettivo di una piena sostituzione del rame con la fibra. Allo stato dei fatti, quindi, è solo una prima porzione di quella che rappresenta una rete di telecomunicazione. Né è a oggi chiaro come due infrastrutture sulla carta molto diverse, quella di Tim e quella di Openfiber, potranno essere integrate tra loro.
Tre problemi
Quali sono allora i problemi che questo progetto infrastrutturale solleva? Sono almeno tre.
Innanzitutto, le infrastrutture disponibili agli operatori di telecomunicazione sono poche, e in molti casi una sola, ponendo un problema di potere di mercato. Se, per raggiungere la piazza del mercato, gli agricoltori devono necessariamente passare per un ponte, il proprietario del ponte potrà imporre una gabella salata, che farà aumentare il prezzo dei prodotti agricoli venduti sul mercato. Analogamente, se il proprietario della rete di telecomunicazione impone prezzi elevati agli operatori che, utilizzando quelle infrastrutture, vendono al pubblico i servizi (voce, internet, video e così via.), gli alti costi sopportati per l’accesso alla rete verranno almeno in parte ribaltati sugli utenti finali. Per contrastare il potere di mercato esistono vari rimedi. In primo luogo, la concorrenza tra più reti, come nella situazione attuale dove in alcuni territori sono disponibili le infrastrutture ultrabroadband di Tim e di Openfiber, cui si aggiungono le altre tecnologie wireless e mobili che garantiscono una elevata velocità di connessione. In alternativa, se la concorrenza tra reti risulta poco efficace è il regolatore, AgCom per l’Italia, che fissa le tariffe di accesso e gli standard tecnici.
Il secondo tema delicato riguarda le possibili distorsioni nella concorrenza nel mercato dei servizi di telecomunicazione quando l’operatore che gestisce la rete è anche uno degli attori nel mercato a valle, dove vengono offerti i servizi al pubblico. Se, continuando nell’esempio precedente, il proprietario del ponte è anche un agricoltore, potrà ritardare il transito dei concorrenti o imporre loro un prezzo elevato, per favorire la vendita dei propri prodotti agricoli sul mercato. Analogamente, l’operatore di rete potrebbe rendere difficoltoso l’accesso alle infrastrutture per i propri concorrenti nel mercato a valle, ponendoli in una posizione di svantaggio. Se, ad esempio, Sky, come recentemente annunciato, intende passare dalla piattaforma satellitare a quella ultrabroadband per distribuire i suoi contenuti video, si troverebbe a competere con TimVision, la società del gruppo Tim attiva in questo segmento. Al contempo, se Tim risultasse l’operatore della rete unica, Sky acquisterebbe da Tim l’accesso alla rete ultrabroadband, trovandosi nei confronti di Tim nella scomoda posizione di cliente (per l’accesso alla rete) e di concorrente (nella vendita dei contenuti video).
A salvaguardia della parità di trattamento per tutti gli operatori nei mercati dei servizi esistono presidi regolatori e, in Italia, un organo di vigilanza sulla parità di accesso. Ma sicuramente la complessità dei modi con cui le reti di telecomunicazione operano rende il compito molto arduo e impegnativo.
Queste preoccupazioni concorrenziali vengono meno nel momento in cui l’operatore che gestisce la rete è una entità societaria diversa e distinta da quelle che operano nel mercato dei servizi. È la strada che conduce alla separazione verticale della rete di telecomunicazione. Su questa soluzione le posizioni sono diverse: viene vista con favore dai concorrenti, mentre Tim si trova di fronte a un dilemma. La perdita del controllo della rete ne indebolisce la posizione di mercato. Ma la creazione di un operatore attivo solamente nella rete, quello che nel gergo viene detto “wholesale only”, nella nuova regolamentazione europea consente di ottenere una tariffazione più favorevole, una soluzione che risulterebbe attraente per il nuovo soggetto Fibercop.
Infine, il terzo ambito su cui valutare le diverse soluzioni riguarda lo sviluppo della rete e gli ingenti investimenti necessari. Dove il tema non concerne solamente l’ammontare complessivo delle risorse messe in campo, ma anche le tecnologie utilizzate e la copertura territoriale realizzata. Il ritorno da questi corposi investimenti dipende infatti da quanti utenti acquisteranno i servizi di telecomunicazione: una bassa domanda o una domanda concentrata su servizi a basso valore aggiunto, implica un basso ritorno all’investimento nella rete, e quindi deboli incentivi a svilupparla. Per ovviare a queste carenze, gli ultimi governi hanno messo a gara significative risorse e Openfiber si è aggiudicata i finanziamenti per sviluppare la rete nelle aree svantaggiate. A questa prima difficoltà si somma il minor incentivo che un operatore di rete come Tim, proprietario della rete tradizionale in rame, ha a sviluppare una infrastruttura alternativa che vada a sostituire quella esistente, soprattutto nella condizione in cui la domanda di servizi di telecomunicazione è debole, come nel caso italiano, e in molti casi può essere oggi soddisfatta anche con soluzioni intermedie (FttCab) che limitano gli investimenti in fibra. Questa era infatti l’architettura della nuova rete immaginata da Tim prima che Openfiber, portatore di un progetto di fibra fino alle case (FttH) entrasse in campo.
Le prospettive
Descritte le problematiche in gioco, come giudicare la soluzione che sembra prospettarsi? La creazione di un’unica rete fissa ultrabroadband appare una scelta razionale e condivisibile: evita una duplicazione degli investimenti, si inserisce in un contesto, ampliato in prospettiva dallo sviluppo del 5G dove molte saranno le modalità di accesso veloce a internet per operatori e utenti. E in cui il potere di mercato della nuova rete potrà essere contenuto dal regolatore AgCom. Tuttavia, è bene chiarire che la mossa di apertura in questa complessa partita a scacchi, il conferimento della sola rete secondaria di Tim a Fibercop, non consente di prevedere quale sarà effettivamente il perimetro finale della rete unica né le modalità di integrazione con la rete di Openfiber. Né, d’altra parte, è chiaro quali asset potrà conferire Openfiber per i propri investimenti nelle aree svantaggiate, dal momento che il meccanismo delle gare la qualifica come l’operatore che svilupperà l’investimento e gestirà l’infrastruttura, mantenendo tuttavia la proprietà in capo allo stato.
La soluzione prospettata mantiene inoltre un ruolo importante di Tim nella nuova società di rete, un assetto di integrazione verticale dove rimangono le preoccupazioni di distorsione concorrenziale a svantaggio dei concorrenti, fortemente evidenziate da Vodafone, WindTre e Sky. Un assetto, inoltre, che potrebbe precludere al nuovo soggetto di rete l’applicazione delle più favorevoli tariffe previste dalla Commissione per gli operatori “wholesale only”.
È proprio la trattativa con Bruxelles, legata alla necessità di una approvazione comunitaria dell’operazione di concentrazione, che potrebbe introdurre strumenti quali la cessione, integrale o parziale, di quote societarie in Fibercop da parte di Tim. La separazione tra la nuova società di rete e chi opera nei servizi, realizzabile con l’uscita di Tim dalla nuova compagine, rappresenta la soluzione più drastica ed efficace al problema. Sulla desiderabilità di questa opzione, anche nella prospettiva del 5G, abbiamo già scritto su questo sito. Soluzioni intermedie – che sembrano emergere nella trattativa – prevedono la partecipazione anche degli altri operatori di servizi all’azionariato della nuova società di rete, assetti di governance dove Tim avrebbe una rappresentanza in consiglio di amministrazione inferiore al proprio pacchetto azionario, un potenziamento del ruolo dell’organo di vigilanza sulla parità di accesso: aprono un nuovo capitolo alle moltissime varianti tra una situazione di pura integrazione o separazione verticale.
È facile intuire come i tavoli della trattativa siano molteplici: dalla esatta definizione di quali porzioni delle infrastrutture di Openfiber e Tim rientreranno nella “rete unica” alla loro valorizzazione, all’allocazione di una quota del debito e degli addetti di Tim alla nuova Fibercop, alla diluizione della quota azionaria di Tim sufficiente per accedere alla più favorevole tariffazione degli operatori “wholesale only”. Su molti di questi tavoli il governo, direttamente o indirettamente attraverso Cassa depositi e prestiti, ha modo di intervenire nella partita.
E infatti, dalla cronaca di questi giorni e, più in generale, dal clima politico odierno emerge la richiesta di un ruolo forte, se non prioritario, dello stato nell’intera vicenda, con la Cassa depositi e prestiti, oggi azionista sia in Tim (9 per cento) che in Openfiber (50 per cento) quale soggetto operativo. Non sono tuttavia chiare le ragioni per cui un soggetto pubblico direttamente coinvolto debba fare meglio rispetto all’alternativa di politiche pubbliche che, sfruttando gli strumenti della regolazione, incentivino e guidino, laddove lo sforzo privato sia insufficiente, lo sviluppo delle nuove reti. L’esperienza recente dei finanziamenti per l’infrastrutturazione delle aree svantaggiate offre un esempio di come si possa ovviare alle carenze di investimento privato con strumenti, in prospettiva ulteriormente potenziati con le risorse del Recovery Fund, messi in campo dallo stato. Mentre non si vede quali competenze, essenziali parlando di settori a elevata innovazione tecnologica, lo stato sarebbe in grado di apportare alla società di rete.