Tratto da lavoce.info
di Claudio Lucifera, docente di Economia politica presso l’Università Cattolica di Milano
La Commissione europea ha promosso una proposta di direttiva per un salario minimo adeguato nei paesi dell’Unione. Ma sono numerosi i punti critici del suo impianto. E tanti i dubbi sulla sua efficacia. Anche perché si parte da situazioni molto diverse.
Perché interviene la Commissione
La crisi economica innescata dall’emergenza sanitaria ha colpito in modo particolare alcuni settori e alcuni gruppi di lavoratori. Molti di loro – occupati in settori come la vendita al dettaglio, la logistica e trasporti, l’assistenza sanitaria a lungo termine e tutti i servizi di cura alle famiglie – hanno basse qualifiche e spesso un basso salario.
Su questi lavoratori si è riversato l’onere maggiore della crisi, oltre che per i bassi salari, anche per il crollo delle ore lavorate e il massiccio ricorso a schemi temporanei di integrazione al reddito per quelli in esubero (i cosiddetti furlough scheme equivalenti alla nostra cassa integrazione). Nei paesi dell’Unione europea, come certificato da Eurostat (qui), anche prima dell’attuale crisi, circa il 10 per cento dei lavoratori viveva in condizioni di povertà relativa. In Italia questa quota era al di sopra della media europea e pari al 12,3 per cento. Inoltre, come riportato nella figura 1, la percezione di ricevere un reddito ingiustamente basso è condivisa dalla maggioranza dei cittadini europei e dal 67 per cento degli italiani (European Social Survey).
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La crisi ha senza dubbio peggiorato le cose, sia ampliando la forbice tra i lavoratori maggiormente protetti e i cosiddetti working poors, sia aumentando la percezione di redditi ingiustamente bassi nella popolazione.
Per contrastare questa tendenza e ottemperare ai principi sanciti dal Pilastro europeo dei diritti sociali (qui) – il diritto a un reddito minimo (Pilastro 14) e una retribuzione equa (Pilastro 6) che garantiscano ai lavoratori un tenore di vita dignitoso – la Commissione europea ha recentemente promosso una proposta di direttiva per un salario minimo adeguato nei paesi membri dell’Unione (Adequate minimum wages in the European Union).
L’impianto della direttiva
La direttiva interviene in un ambito nuovo e politicamente sensibile: in primo luogo perché la Commissione non ha competenza in materia di regolazione salariale (si veda l’articolo di Andrea Garnero e Giulia Giupponi qui); e in secondo luogo perché sebbene la contrattazione collettiva sia diffusa in tutti paesi dell’Unione, di fatto l’articolazione in livelli, il coordinamento tra i settori, il tasso di copertura e la durata dei contratti, così come le regole di estensione (obbligatoria o di fatto) sono così diversi da rendere problematico qualsiasi tipo di intervento.
La proposta è articolata in quattro capitoli e contiene una ventina di articoli che coprono un ampio spettro di istituti: dalla definizione del minimo, alla promozione della contrattazione collettiva, il coinvolgimento delle parti sociali nella regolazione dei minimi e l’aggiustamento nel tempo, fino alla vigilanza e monitoraggio degli effetti economici e sociali dei minimi stessi. Come questi principi generali saranno tradotti in iniziative legislative è lasciato ai tempi e alla discrezionalità dei singoli paesi, secondo il principio di sussidiarietà. Tuttavia, i punti critici sull’impianto e sull’efficacia della direttiva sono numerosi, così come le implicazioni per il nostro paese.
La proposta distingue tra i paesi con e senza salario minimo legale, precisando che in questi ultimi la protezione dei minimi è affidata agli assetti tradizionali delle relazioni industriali senza obblighi di introdurre un minimo legale, né l’estensione dei minimi definiti dalla contrattazione alle imprese non firmatarie. Precisa, inoltre, che nei paesi in cui la copertura dei contratti collettivi sia inferiore al 70 per cento debbano essere intraprese azioni per sostenere la diffusione della contrattazione. Purtroppo, non esistono dati attendibili sulla copertura dei contratti collettivi, e anche nei paesi in cui la normativa dispone l’estensione dei minimi a tutte le imprese, il passaggio non è automatico ma variamente regolato da provvedimenti dei ministeri competenti.
Nel nostro paese la copertura dei contratti s’intreccia con la spinosa questione della rappresentatività delle parti sociali, in un vuoto legislativo che ha aperto la strada ai cosiddetti “contratti pirata”. Nei fatti, quindi l’applicabilità dell’articolo 4, in Europa e in Italia, appare assai dubbia.
La direttiva indica come la determinazione del salario minimo dovrebbe essere regolata e adeguata nel tempo, tenendo in considerazione la dinamica dei prezzi, della produttività, il potere di acquisto, il livello e la distribuzione dei salari. Inoltre, dispone che nella definizione dei minimi legali sia necessario coinvolgere le parti sociali. Pur non entrando nel merito di quale livello del salario minimo debba essere adottato come riferimento dai paesi membri, vengono evocati i criteri utilizzati negli studi internazionali, come ad esempio il rapporto tra salario minimo legale e salario medio (o mediano): il cosiddetto Kaitz index. A regime, l’indice dovrebbe essere almeno pari al 60 per cento. La figura 2, tuttavia, mostra come nella maggioranza dei paesi l’indice di Kaitz sia di fatto inferiore e come l’aggiustamento necessario sia significativo.
Cosa accadrebbe in Italia?
Un confronto con il caso italiano non è semplice, visto che esistono più di 800 contratti collettivi nazionali con minimi tabellari molto differenziati. Tuttavia, considerando quelli dei principali contratti firmati dai sindacati confederali e dalle organizzazioni datoriali, l’indice di Kaitz varia tra il 70 e il 90 per cento, quindi sulla carta è più elevato di quello degli altri paesi europei (qui).
In realtà, più di due terzi degli 800 contratti collettivi sono siglati da organizzazioni minoritarie e poco diffuse che operano spesso un vero dumping contrattuale delle garanzie e delle tutele dei lavoratori.
L’introduzione di un salario minimo anche nel nostro ordinamento ha sempre visto sindacati e organizzazioni datoriali uniti nel rigettare l’idea, sostenendo che non ce ne sia bisogno. I fatti in realtà dicono il contrario, soprattutto se viene considerata anche la vasta platea di lavoratori con contratti parasubordinati, o eterodiretti che – tranne rare eccezioni – sono generalmente esclusi dalla copertura dei contratti collettivi. Resta dunque da vedere se la direttiva, indipendentemente dalla attuale congiuntura, riuscirà a rafforzare la contrattazione collettiva, elevare i minimi retributivi e combattere il lavoro povero in gran parte dei paesi europei e, nel caso dell’Italia, invertendo la tendenza alla frammentazione contrattuale e all’erosione della copertura dei contratti collettivi comparativamente più rappresentativi. Molti obiettivi con un solo strumento, c’è ragione di dubitarne.