Tratto da lavoce.info
Federiga Bindi, titolare della Cattedra Jean Monnet all’Università di Roma Tor Vergata
Bisogna partire dal bilancio della presidenza Trump per capire cosa potrà accadere negli Stati Uniti dopo il voto. Sarà comunque difficile ricostruire la coesione sociale. E lo stesso risultato delle elezioni potrebbe essere messo in discussione.
Ansia per il risultato
Il nervosismo in America è ormai palpabile, si trattiene il fiato aspettando i risultati delle elezioni presidenziali del 3 novembre, che in realtà potrebbero arrivare settimane dopo il voto. Comunque vada, seguiranno mesi difficili, e non solo a causa del coronavirus, di cui ormai si ammalano nel paese quasi 100 mila persone al giorno. Nel dopo-elezioni ci si aspettano violenze e scontri nelle città, tanto che i negozi stanno coprendo le vetrine con grandi pannelli di legno.
Com’è possibile che la più antica democrazia al mondo sia arrivata a questo punto? Per capirlo, partiamo da un bilancio della presidenza Trump per poi fare il punto sulla situazione attuale e ipotizzare quali possano essere gli scenari futuri.
Dai buoni dati dell’economia alla pandemia
Nel 1992, l’allora candidato Bill Clinton, divenne famoso per la frase del suo consigliere James Carville “It’s the economy, stupid”, a significare che gli americani scelgono il loro leader con la mano al portafoglio. Nei primi tre anni della presidenza di Donald Trump è continuata la crescita economica iniziata nel 2010 con Barack Obama: il Washington Post ha analizzato i trend economici delle ultime due presidenze sotto sedici profili diversi e la continuità è evidente. La ricetta base è la stessa: indebitare lo stato per far girare l’economia.
I principali beneficiari dei primi anni della presidenza Trump sono i lavoratori bianchi non specializzati e a basso tasso di scolarizzazione, che rappresentano anche lo zoccolo duro del suo elettorato – ad esempio in aree come il West Virginia – e i super milionari. A perdere di più è la classe media, schiacciata dai debiti per università e casa e dalla diminuzione del potere di acquisto. Ciononostante, fino all’arrivo del Covid-19, Trump aveva impostato la campagna elettorale sulla crescita economica, che in effetti caratterizzava il paese, aiutata anche dai bassissimi tassi di interesse.
La pandemia ha tuttavia cambiato diametralmente le carte in tavola. Un americano su quattro non riesce a pagare le proprie spese – incluso l’affitto o il mutuo, con il rischio di vedersi portar via la casa dalle banche. Tra i lavoratori meno abbienti la percentuale sale a quasi uno su due. Si aggiunga che, perdendo il lavoro, gli americani perdono anche la copertura sanitaria, oggi più cruciale che mai. Quello americano è un sistema brutale, che funziona finché le cose vanno bene, ma quando non è così, si rischia di perdere tutto in un battibaleno.
Ma lo stesso periodo di crescita degli ultimi tre anni ha avuto un costo non indifferente, ad esempio in termini ambientali: dall’efficienza energetica, alla protezione del territorio, all’acqua potabile, Trump ha fatto retromarcia sulla protezione dell’ambiente in oltre 125 aree. Non per nulla l’ambiente e l’approvvigionamento energetico hanno costituito uno dei campi di battaglia della campagna elettorale.
Dove Trump ha registrato i maggiori successi – almeno per il suo elettorato – è stata la valanga di nomine giudiziarie: 300 giudici federali, 60 giudici delle corti di appello e tre giudici alla Corte suprema. Comunque vadano le elezioni, l’impronta conservatrice resterà sugli Usa per decenni a venire, e la nomina di Amy Barrett alla Corte suprema ha fatto registrare una ripresa del gradimento verso Donald Trump negli ultimi giorni. Non per nulla, nel 2016, proprio il fatto che si sarebbe dovuto procedere a tutte queste nomine nel sistema giudiziario era il motivo principale per cui Joe Biden voleva candidarsi.
La politica estera
Altre due aree in cui Trump lascia strascichi pesanti sono la politica estera e la coesione sociale. Se vincesse Biden, la politica estera sarebbe l’area in cui sarebbe più facile e veloce recuperare. Già vicepresidente Usa e presidente del Senate Foreign Relations Committee, Joe Biden ha una fitta rete di rapporti internazionali che gli permetterebbe di riportare gli Stati Uniti in carreggiata, abbandonando le relazioni privilegiate con i grandi dittatori della terra e riconducendo il paese al centro della tradizionale rete di alleati e di accordi multilaterali.
All’inizio della sua presidenza, Trump si è mosso in linea di continuità con le precedenti amministrazioni, almeno a livello sostanziale, ma è velocemente subentrata una fase di schizofrenia. Gli Stati Uniti sono usciti dall’accordo di Parigi, dall’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa), dall’Unesco, dal partenariato trans-pacifico (Tpp), dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e dall’Organizzazione mondiale della sanità, solo per menzionare i casi più eclatanti (la lista completa è qui). A ciò si aggiungono la scomparsa dei diritti umani dall’agenda, i 545 bambini latino-americani di cui si sono persi i genitori, le relazioni erratiche con la Cina, la Russia, ma anche con la Nato e le Nazioni Unite.
Ciononostante, o forse proprio per questo, i tradizionali alleati – l’Europa in primo luogo, che non ha saputo approfittare del vuoto lasciato dagli americani per diventare un attore rilevante dello scenario mondiale – non vedono l’ora di tornare al business as usual dovesse vincere Joe Biden.
Se invece Donald Trump dovesse essere rieletto, altri quattro anni come i precedenti costituirebbero una via senza ritorno per la politica estera globale. Senza la guida americana, nel vuoto europeo, Cina e Russia diventerebbero i due maggiori attori internazionali, con conseguenze non facilmente prevedibili.
Un paese diviso in tutto
La questione della coesione sociale è più complessa e difficile da sanare, anche se solo una persona di grande umanità come Joe Biden – che infatti non si stanca di ripetere “sono il candidato democratico ma sarò il presidente di tutti gli americani” – può avere una chance di riuscirci.
Nonostante le grandi catene commerciali che si trovano in ogni angolo dell’America e le casette con il giardino tutte eguali rimandate dai film di Hollywood, gli Stati Uniti sono un paese profondamente diverso e spaccato. Gli Usa sono frammentati in termini di reddito, educazione, etnia, lingua, occupazione, interessi, geografia, religione, orientamento politico, stile di vita, tanto per indicare i principali. La dicotomia Nord-Sud – ovvero tra stati schiavisti e non – è profonda e ancora viva nella società americana. Solo 66 anni fa gli Stati Uniti erano un paese segregato: in ben 17 stati, i neri erano – ai sensi della legge – cittadini di serie B. La decisione della Corte suprema in Brown vs Board of Education del 1954 ha solo formalmente eliminato la segregazione. La candidata democratica alla vicepresidenza Kamala Harris, negli anni Settanta era una delle bambine che venivano portate con lo scuolabus (il fenomeno del bussing) in scuole “bianche” per forzare l’integrazione. Solo nel 1964, con il Civil Rights Act dell’allora presidente Lyndon Johnson, sono state vietate le norme capestro (note come Jim Crow laws) che rendevano di fatto impossibile per i neri esercitare il diritto di voto al Sud.
L’elezione di Barack Obama, il primo presidente nero (in realtà misto) degli Usa, ha costituito un momento storico, in cui molti hanno visto la riparazione di torti ultracentenari e si sono illusi che gli Stati Uniti fossero un paese finalmente diverso e integrato. Certamente, le cose sono migliorate. Ad esempio, nel 1967, quando le leggi che li proibivano sono state abrogate, i matrimoni misti negli Usa erano il 3 percento del totale. Nel 1980 la percentuale era salita al 7 per cento e nel 2015 al 17 per cento. Ma la realtà è che in molte parti del paese restano cicatrici, differenze profonde e una segregazione informale.
Nel suo The Fractured Republic, Yuval Levin osserva che in certe fasce della popolazione vi è una nostalgia degli anni Cinquanta e Sessanta, l’età d’oro della classe media (bianca). Mentre la presidenza Obama faceva fare un salto progressista al paese, la maggioranza silenziosa e povera bianca covava risentimento. Basta uscire dalle strade trafficate per toccare con mano negli Stati Uniti una povertà da terzo mondo che difficilmente può immaginare chi pensa di conoscere il paese attraverso i film o viaggiando da turista. Ci sono interi villaggi di trailer fatiscenti e magari senza bagno in ogni angolo del paese. Bianchi senza educazione e senza prospettive in un mondo in continua evoluzione e specializzazione hanno dato la colpa della loro miseria al presidente nero. La fine della segregazione, mai veramente digerita, è tornata a galla assieme a schiere di suprematisti bianchi. Donald Trump ha saputo cogliere, e ha soffiato sul fuoco, di questa insofferenza. Negli stati Uniti il presidente non è solo un capo politico, ma anche morale. Come si dice in inglese “he sets the tone” (dà il tono) del paese. Gli americani si riflettono nel presidente e ne adottano usi e costumi. Scomparsi i modi civili ed educati di Barack Obama, si è fatta largo la violenza verbale e fisica.
Ma al tempo stesso, Obama ha dato consapevolezza sia ai neri che ai progressisti in generale, che non intendono più sottostare o permettere soprusi. Le morti di neri inermi come George Floyd o Breonna Taylor per mano di poliziotti bianchi hanno scatenato le proteste. Hanno fatto il giro del mondo le immagini dei tafferugli e dei coprifuochi da Portland a Washington DC. Costituiscono un assaggio di quello che verosimilmente avverrà nel dopo 3 novembre.
Siamo qui tornati al dopo-elezione. Donald Trump e il suo vicepresidente Mike Pence si sono rifiutati di assicurare che accetteranno un’eventuale sconfitta. L’affrettatissima nomina di Amy Barrett, sesto giudice conservatore della Corte suprema su un totale di nove, è sì una ciliegina sulla torta per i suoi sostenitori, ma soprattutto è il modo di Trump per assicurarsi la maggioranza nella Corte che, verosimilmente, sarà chiamata a decidere l’esito delle elezioni.
Sabato 1° novembre, oltre il 60 per cento dei votanti del 2016 avevano già votato, la più alta percentuale di voto anticipato della storia americana. Questi voti – che gli esperti ritengono siano a maggioranza democratica – tanto che Trump continua a ripetere che il voto anticipato equivale a frode – vengono contati con modi e tempi diversi nei vari stati. Al tempo stesso, ci sono prove che al Sud siano state adottate tattiche da Jim Crow per rendere difficoltoso l’esercizio del voto o invalidare le schede dei neri.
I risultati del 3 novembre rischiano dunque di essere assai diversi da quelli definitivi. Entrambe le parti si preparano a eventuali contestazioni, assoldando schiere di avvocati. Nel vuoto di potere e nell’incertezza, molti si aspettano proteste violente. Dall’inizio della pandemia, non è solo esponenzialmente salito l’acquisto delle mascherine, ma è cresciuta anche la vendita di armi da fuoco. Da questo punto di vista, gli ammiccamenti di Trump a gruppi violenti di suprematisti bianchi come i Proud Boys non lasciano presagire nulla di buono.
Anche qualora dovesse giocoforza accettare la sconfitta, un Trump a quel punto ferito nel suo orgoglio narcisista e incattivito avrebbe oltre due mesi per lasciare un paese sottosopra e avrebbe il tempo per forzare le regole costituzionali, ad esempio auto-concedendosi e concedendo ai suoi familiari il “perdono”, in modo da evitare le patrie galere una volta che venga meno l’immunità presidenziale (fronde fiscale e violenze sessuali sono solo alcuni dei casi per i quali potrebbe essere indagato).
Come dice il motto nazionale, God Bless America. Ne avrà bisogno.