Tratto da lavoce.info
di Paolo Balduzzi, professore di Scienza della finanza all’Università Cattolica di Milano
e Emanuela Rinaldi
e Emanuela Rinaldi
I test Pisa 2018 mettono in luce ancora una volta le scarse competenze dei nostri ragazzi rispetto ai loro coetanei europei, con un divario di genere particolarmente marcato. Tante le iniziative di contrasto messe in campo in questi anni, pochi i risultati.
Arrivano i risultati dei test Pisa 2018 sulla financial literacy (o “competenze finanziarie”). Per l’Italia, solo ombre: punteggi sotto la media, performance tra le peggiori con riferimento ai paesi europei, massima disuguaglianza tra maschi e femmine rispetto ai coetanei delle altre nazioni. Del resto, non ci si può sorprendere: tanto a casa quanto a scuola, i giovani italiani appaiono i meno esposti a problemi e discussioni che riguardano tematiche finanziarie. E le iniziative in campo, seppur numerose, appaiono ancora spesso progettate con approssimazione, poco efficaci, incuranti delle ricerche scientifiche (sempre più numerose) sulla financial literacy e sulle variabili a essa correlate in diversi gruppi della popolazione. Ma siamo davvero destinati all’ignoranza finanziaria?
I risultati
I test Pisa (Programme for International Student Assessment) sono una serie di questionari standardizzati, rivolti ogni tre anni a campioni rappresentativi di studenti di 15 anni di diversi paesi, che puntano a valutare il grado di conoscenze matematiche, scientifiche, di comprensione dei testi e, appunto, finanziarie acquisite nel corso degli studi. I risultati principali dell’ultimo round sono già stati commentati su questo sito qualche mese fa, ma quelli sulle competenze finanziarie dei giovani sono stati presentati solo lo scorso 7 maggio. E si tratta di risultati effettivamente poco incoraggianti per il nostro paese, che, come illustrato in Tabella 1, migliora rispetto al 2012 ma peggiora rispetto al 2015; in ogni caso, il punteggio medio dell’Italia è sempre inferiore alla media Ocse. Tra i paesi Ocse che hanno partecipato al test, solo il Cile ottiene un risultato inferiore all’Italia (451). Tra i paesi non Ocse, invece, solo la Russia (495) fa meglio di noi. Interessante notare come, nel confronto tra istituti tecnici e licei, sono gli studenti dei secondi ad avere una performance lievemente superiore.
I test Pisa (Programme for International Student Assessment) sono una serie di questionari standardizzati, rivolti ogni tre anni a campioni rappresentativi di studenti di 15 anni di diversi paesi, che puntano a valutare il grado di conoscenze matematiche, scientifiche, di comprensione dei testi e, appunto, finanziarie acquisite nel corso degli studi. I risultati principali dell’ultimo round sono già stati commentati su questo sito qualche mese fa, ma quelli sulle competenze finanziarie dei giovani sono stati presentati solo lo scorso 7 maggio. E si tratta di risultati effettivamente poco incoraggianti per il nostro paese, che, come illustrato in Tabella 1, migliora rispetto al 2012 ma peggiora rispetto al 2015; in ogni caso, il punteggio medio dell’Italia è sempre inferiore alla media Ocse. Tra i paesi Ocse che hanno partecipato al test, solo il Cile ottiene un risultato inferiore all’Italia (451). Tra i paesi non Ocse, invece, solo la Russia (495) fa meglio di noi. Interessante notare come, nel confronto tra istituti tecnici e licei, sono gli studenti dei secondi ad avere una performance lievemente superiore.
È grave soprattutto rilevare come, a distanza di 6 anni dalla prima rilevazione, ci siano ancora forti e significative differenze di genere: i risultati dei ragazzi superano regolarmente quelli delle ragazze, anche tenendo conto delle performance in matematica e lettura. Un risultato che caratterizza fortemente il nostro paese rispetto agli altri, tanto che il differenziale dei risultati, solo +2 per la media Ocse nel 2018, arriva a +15 per l’Italia. Sono state avanzate molteplici spiegazioni in letteratura: un maggiore materialismo (e quindi interesse verso il denaro e lo studio dello stesso) da parte dei maschi rispetto alle femmine a partire sin dalle scuole primarie; una maggiore abitudine degli adolescenti a fare “lavoretti” pagati rispetto alle loro coetanee; una minore propensione al rischio e una più bassa fiducia in se stesse delle ragazze in ambito finanziario che sembra correlata anche alla maggiore propensione a rispondere “non so” alle domande di financial literacy (laddove i ragazzi “provano” comunque a individuare una risposa tra quelle proposte dal test). C’è anche un ruolo significativo della famiglia, che agisce sui processi di socializzazione economica in modo diverso. Famiglia dove, peraltro, si conferma un livello di competenze finanziarie molto basso, come documentato da uno studio recente della Banca d’Italia. Il background famigliare, misurato sulla base del livello di istruzione, del tipo di occupazione e del capitale posseduto dai genitori, ha comunque un impatto inferiore in Italia rispetto alla media degli altri paesi Ocse, vale a dire che i risultati ottenuti da studenti con background differenti sono più simili in Italia. Risultati simili si sono osservati anche per le performance in lettura, scienza e matematica.
Tante iniziative, pochi risultati: che fare?
Il numero di iniziative di educazione finanziaria è in forte crescita dal 2012 ad oggi. Eppure siamo ancora agli ultimi posti in classifica, con forte penalizzazione delle ragazze e dei 15enni che vivono al Sud. Secondo alcuni studi, chi detiene denaro (e quindi potere) è ben contento di mantenere basso il livello di competenze finanziaria, per sfruttare il proprio vantaggio informativo. Che fare, quindi? Proponiamo alcune considerazioni sintetiche ma frutto di un’analisi approfondita della letteratura e dei dati dell’Osservatorio nazionale di educazione economico-finanziaria. È opportuno innanzitutto definire indicatori chiari e linee guida per gli enti che progettano programmi di educazione finanziaria (si veda ad esempio la “check list dei 15 indicatori Oneef“). È auspicabile che tali indicatori siano condivisi dal Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria e coerenti con la Strategia nazionale di educazione finanziaria definita dal Comitato stesso. Inoltre, è necessario promuovere il coordinamento di programmi, iniziative e risorse, evitando sovrapposizioni confuse di interventi simili e chiarendo la distinzione tra “educazione” e “formazione”. È necessario favorire l’implementazione di “buone pratiche” che sono state oggetto di monitoraggio e di valutazioni serie, meglio se con metodologia contro-fattuale. Infine, serve identificare obiettivi prioritari – vale a dire quelli che sulla base delle indagini più rappresentative risultano i soggetti più deboli dal punto di vista delle competenze finanziarie – e definire i programmi sulla base delle caratteristiche della loro cultura finanziaria. È evidente dunque che, per quanti sforzi siano stati per aumentare il numero di iniziative di educazione finanziaria, la qualità – pur con pregevoli eccezioni – è ancora piuttosto scarsa. Solo agendo in modo differente, coordinato e coerente, è probabile che in futuro le competenze finanziarie in Italia miglioreranno. Altrimenti, ci troveremo sempre tra gli ultimi in classifica.
Il numero di iniziative di educazione finanziaria è in forte crescita dal 2012 ad oggi. Eppure siamo ancora agli ultimi posti in classifica, con forte penalizzazione delle ragazze e dei 15enni che vivono al Sud. Secondo alcuni studi, chi detiene denaro (e quindi potere) è ben contento di mantenere basso il livello di competenze finanziaria, per sfruttare il proprio vantaggio informativo. Che fare, quindi? Proponiamo alcune considerazioni sintetiche ma frutto di un’analisi approfondita della letteratura e dei dati dell’Osservatorio nazionale di educazione economico-finanziaria. È opportuno innanzitutto definire indicatori chiari e linee guida per gli enti che progettano programmi di educazione finanziaria (si veda ad esempio la “check list dei 15 indicatori Oneef“). È auspicabile che tali indicatori siano condivisi dal Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria e coerenti con la Strategia nazionale di educazione finanziaria definita dal Comitato stesso. Inoltre, è necessario promuovere il coordinamento di programmi, iniziative e risorse, evitando sovrapposizioni confuse di interventi simili e chiarendo la distinzione tra “educazione” e “formazione”. È necessario favorire l’implementazione di “buone pratiche” che sono state oggetto di monitoraggio e di valutazioni serie, meglio se con metodologia contro-fattuale. Infine, serve identificare obiettivi prioritari – vale a dire quelli che sulla base delle indagini più rappresentative risultano i soggetti più deboli dal punto di vista delle competenze finanziarie – e definire i programmi sulla base delle caratteristiche della loro cultura finanziaria. È evidente dunque che, per quanti sforzi siano stati per aumentare il numero di iniziative di educazione finanziaria, la qualità – pur con pregevoli eccezioni – è ancora piuttosto scarsa. Solo agendo in modo differente, coordinato e coerente, è probabile che in futuro le competenze finanziarie in Italia miglioreranno. Altrimenti, ci troveremo sempre tra gli ultimi in classifica.