Tratto da lavoce.info
di Massimo Baldini, professore associato di Scienza delle Finanze presso Economia di Modena
e Cristiano Gori, professore ordinario di politica sociale nel Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento
Lo scarso interesse suscitato dalla pubblicazione dei dati annuali sulla povertà in Italia è eloquente. Evidenzia la necessità di una valutazione delle politiche di contrasto al fenomeno. E rimarca l’esigenza di modificare le risposte nel dopo-pandemia.
La povertà prima del Covid-19
Nel 2019 l’incidenza della povertà assoluta – cioè la percentuale delle famiglie colpite – si è ridotta rispetto all’anno precedente, passando da 7 a 6,4 per cento (da 1,82 a 1,67 milioni di nuclei); misurata in termini d’individui, l’incidenza è scesa dall’8,4 al 7,7 per cento (da 5 a 4,59 milioni di persone). Si tratta di un risultato di rilievo, basti pensare che è solo la seconda volta dal 2005 – cioè da quanto esiste una misurazione Istat sulla povertà assoluta – che si registra un segno meno. Nel 2019 l’incidenza diminuisce al Centro e soprattutto nel Meridione, mentre rimane stabile nel Settentrione.
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L’altro aspetto positivo consiste della diminuzione dell’incidenza tra le fasce di età più giovani, cioè quelle che avevano subito il maggior incremento negli anni precedenti. Rimane invece costante tra gli anziani, a un livello assai inferiore alla media.
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Abbiamo le politiche contro la povertà, ma non quelle per valutarle
Nel 2019 è entrato in vigore il reddito di cittadinanza (Rdc), con un notevole aumento dei finanziamenti per il contrasto della povertà (portandoli a circa mezzo punto di Pil). Giusto interrogarsi, quindi, sul suo impatto sulle condizioni delle famiglie: i dati Istat, però non forniscono risposte in merito poiché la loro funzione consiste esclusivamente nel descrivere il fenomeno e la sua evoluzione nel tempo, non nel valutare le politiche. Non a caso, in precedenza – quando l’attenzione dei più era concentrata sul trend della povertà – la pubblicazione dei dati aveva sempre suscitato grande interesse, mentre stavolta non è stato così: la domanda prevalente sull’ultimo anno è: “qual è stato l’effetto del Rdc?”.
Il problema è che una risposta non l’ha nessuno e neppure, a nostra conoscenza, qualcuno sta lavorando per ottenerla. Non esistono, infatti, valutazioni del reddito di cittadinanza e non si ha notizia di una loro preparazione. Peraltro, le ampie banche dati a disposizione dell’Inps sugli utenti del Rdc contengono una miniera d’informazioni potenzialmente molto utili a tal fine.
Sono dunque due i temi per il governo. Il primo riguarda la necessità di promuovere attività di valutazione delle politiche contro la povertà e il secondo consiste nell’esigenza di rendere utilizzabili da ricercatori indipendenti i propri dati. La questione di fondo, però, è più ampia: negli ultimi anni l’Italia – con il Rei (reddito di inclusione) prima e il Rdc dopo – si è dotata di politiche contro la povertà, ma ora dovrebbe dotarsi anche di politiche per la loro valutazione. Altrimenti, il nostro sguardo sulle misure non sarà mai a fuoco.
Come si trasforma la povertà dopo il lockdown?
Un altro motivo dello scarso interesse suscitato dai dati Istat è che sono stati percepiti come già “vecchi”, in quanto riferiti alla situazione precedente alla pandemia. Diverse elaborazioni recenti, tuttavia, consentono alcune ipotesi su quanto avviene oggi. Le informazioni disponibili convergono nell’indicare che i lavoratori coinvolti nei settori in maggiore difficoltà appartengono alle fasce più deboli di occupazione, con accentuata presenza di lavoro a tempo determinato e part-time, carriere frammentate e giovani. Si tratta di analisi confermate dalla Banca d’Italia, secondo cui “nel medio termine esiste il pericolo che l’emergenza Covid-19 si ripercuota con particolare forza sulle classi sociali più deboli per la maggiore presenza di lavoratori a basso reddito nei settori più colpiti”. Inoltre, il tradizionale ruolo protettivo esercitato in Italia dal risparmio è complessivamente diminuito rispetto al passato e, soprattutto, le parti più fragili della popolazione ne hanno assai poco.
Tutti questi fattori inducono a ipotizzare che il rischio di povertà sia in notevole aumento negli ultimi mesi e che coinvolga fasce sociali già in forte difficoltà: giovani, lavori precari e a tempo determinato, mentre più protetti dovrebbero essere, come nella precedente crisi del 2008-2013, i dipendenti pubblici e gli anziani.
Verso la “fase 2” delle politiche di contrasto
Per rispondere all’insorgere della pandemia, nel “decreto Rilancio” è stata introdotta una misura temporanea, il reddito di emergenza (Rem), tesa a non lasciare priva di un sostegno nessuna persona in grave difficoltà economica. Seppure il suo disegno presenti varie criticità, promuoverla è stata l’unica scelta possibile per ottenere risultati tangibili a favore degli esclusi dalle altre prestazioni. Da una parte, infatti, il Rem è stato proposto successivamente al “decreto cura Italia”, che aveva già impostato le misure in termini di categorie (ammortizzatori sociali per i dipendenti e bonus per gli autonomi). A quel punto, se si voleva ottenere un risultato concreto bisognava agire all’interno di questo scenario, “tappando i buchi” tra le diverse prestazioni dove necessario. Dall’altra, non era possibile proporre la riforma strutturale del reddito di cittadinanza. Infatti, il “decreto Rilancio” prevedeva esclusivamente provvedimenti di protezione del reddito temporanei e pensati per le specificità del periodo iniziale post-Covid-19.
Se l’introduzione del Rem ha rappresentato la fase uno delle politiche di contrasto della povertà dopo l’insorgere della pandemia, l’obiettivo della “fase 2” consiste nella revisione del reddito di cittadinanza. La sfida si pone con chiarezza: non solo bisognerà provvedere a cambiarlo, ma sarà cruciale capire come modificarlo così da rispondere nella maniera più adeguata al mutato contesto socio-economico. In questa prospettiva, anche un’analisi del funzionamento del Rem sarà senz’altro utile.