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Rimini. Pecci, Lega: “Riprendiamo ad innovare”

Redazione di Redazione
8 Novembre 2020
in Focus, Rimini
Tempo di lettura : 4 minuti necessari
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Marzio Pecci, Lega

Marzio Pecci, Lega

Marzio Pecci, Lega

L’INTERVENTO

Marzio Pecci, consigliere comunale Lega

 

Abbiamo sentito ripetere più volte che dopo il Covid non sarebbe stato più come prima.

Ora non siamo nel dopo Covid, ma ciò non deve impedire di pensare al futuro.

Rimini, lo abbiamo detto più volte, è una città ferma che non è riuscita ad innovare il proprio territorio ed il proprio prodotto.

Per cambiare occorre sapere pensare in grande.

La prossima fase del dopo Covid non sarà meno complicata delle fasi precedenti, ma dovremo affrontarla con coraggio e intelligenza per riprenderci economicamente.

Non basta dire, per riprenderci, che “ci vuole innovazione” e “più tecnologia” perché queste non sono beni di consumo che si comprano al mercato del mercoledì in piazza Tre Martiri.

Fino ad oggi non abbiamo visto, né a Rimini, né a Roma e tantomeno a Bruxelles i promotori della “next generation” a presentare progetti idonei a cambiare la società italiana e quella degli altri Paesi europei.

Abbiamo però visto, in questi mesi, il nostro governo impegnato nella spasmodica ricerca di idee prima incaricando la Task force di Vittorio Colao e poi la chiamata degli “Gli Stati Generali”, ma entrambi gli eventi hanno prodotto un insieme estemporaneo di progetti burocraticamente credibili, ma non sufficienti a garantire che i contribuiti europei contribuiranno a creare l’innovazione di cui il nostro Paese ha bisogno.

Stando così le cose bisogna far capire ai nostri amministratori che l’innovazione non è un un prodotto del genio individuale, ma un fatto sociale, culturale, politico ed economico.

Per questo ci sono territori che innovano ed altri no.

Ad esempio fino agli anni ’60 abbiamo creato il turismo della riviera romagnola (con le sue trasformazioni: “pensione completa”, “divertimentificio”, “i parchi”, ecc.), il distretto calzaturiero di San Mauro Pascoli, il distretto della meccanica dell’Emilia o dell’automotive in Piemonte e Lombardia.

I distretti in quanto specializzazione, significano ricerca e per questo hanno trainato l’economia per anni e ciò è durato fino a quando mettevano in campo idee nuove, stravaganti e folli poi hanno smesso di innovare e ora, lentamente, stanno scomparendo, per cui prima di parlare di innovazione occorre capire il perché ciò sia accaduto.

Capire questo significa “ripartire” e permettere all’ente pubblico, all’industria e alle associazioni, di indirizzare e pianificare la strategia, amministrando le risorse, coinvolgendo l’Università, i centri di ricerca, creando un tessuto per le start up romagnole, mettendo le medie imprese e le imprese altamente tecnologiche in rapporto con i settori avanzati dell’Europa e del mondo.

Intanto possiamo dare spazio all’idea dello sviluppo rurale che dialoga con la costa (in estate ed in inverno) per accrescere le potenzialità del turismo e dell’agro-alimentare e per migliorare la redditività dei processi produttivi.

E’ complicato coinvolgere amministratori, imprenditori e cittadini nel cambiamento del modo di essere e di pensare, ma innovazione è solo questo.

L’indirizzo strategico per tutti deve essere concentrato non tanto al “che cosa” ma al “come” dell’innovazione.

Sappiamo, ed è dimostrato, come la tecnologia, in quanto tale, non stimola l’innovazione né contribuisce a diffonderla.

Abbiamo visto come la diffusione della tecnologia abbia, invece, ridotto la produttività ed aumentato le disuguaglianze nel Paese e nel territorio riminese soprattutto in termini di reddito disponibile.

E allora, non sembri uno sproposito se diciamo, ad esempio, che il 5G, l’intelligenza artificiale e le biotecnologie non costituiscono innovazione così come la “litania programmatica” di qualche gruppo che pretende di scendere nell’agone politico per aggiungere altre banalità a quelle che normalmente si ascoltano in piazza o si leggono su facebook.

Immaginare l’innovazione come tecnicità è un errore che chi si occupa di politica e di amministrazione pubblica non può permettersi.

Siamo usciti dallo sviluppo tecnologico 2.0 e 3.0, ora ci dicono che siamo entrati nel 4.0, viene da chiederci: ma cosa significa?

Forse la dotazione di quegli artefatti tecnologici ha cambiato la nostra mentalità ed ha avviato processi produttivi nuovi?

Purtroppo no. Il processo innovativo non si misura in base all’originalità e alla vistosità dei suddetti artefatti tecnologici, ma in base al loro potere trasformativo.

A conferma di ciò, proprio in questi giorni, assistiamo agli errori del governo su questo modo di interpretare l’innovazione: esempio ne è la didattica a distanza ed il lavoro agile.

La didattica a distanza, che oscilla tra la sfiducia nei nuovi mezzi informatici e l’entusiasmo verso le diverse piattaforme per le videoconferenze. In realtà ci troviamo di fronte ad un determinismo tecnologico insensato che non permette né l’innovazione nè la formazione vera a distanza, oppure lo “smart working” che viene confuso con il “telelavoro” e/o “lavoro da casa”.

Dunque, l’innovazione non è questa.

L’innovazione vera consiste nel cambiare il Paese, introdurre un nuovo modo di pensare, un nuovo modello di vita e di organizzazione da insegnare alle nuove generazioni attraverso un agevolato sistema burocratico e legislativo, con vantaggi fiscali e risorse finanziarie adeguate.

Occorre pensare ad una società evoluta, costruita sulle tecnologie attuali e sulle loro evoluzioni future, ma ciò non potrà essere fatto dagli studenti di oggi che fanno didattica a distanza in mutande, davanti alla “XBOX” mentre mangiano merendine, bensì dalle intelligenze del Paese frettolosamente “rottamate”.

L’innovazione, che abbiamo in mente, prefigura un progetto che serve a disegnare un mondo nuovo, diverso dal totalitarismo consumistico di oggi e dell’immigrazione di massa che dissolve l’identità dei popoli tanto di quelli sradicati dalle loro terre quanto di quelli autoctoni.

Vi è l’impellente bisogno del ritorno all’economia etica che consenta il recupero dell’uomo che deve tornare ad essere il centro di ogni progetto.

Ecco solo così il piano “Nex Generation Eu” potrebbe funzionare.

Ai filosofi spetterà l’arduo compito di disegnare la società del futuro verso la quale l’innovazione vera dovrà traghettarci.

Scuola, lavoro, logistica, spazio urbano, ambiente, urbanistica, economia, energia, mobilità, sono i temi principali.

Questo significa pensare alle nuove generazioni …. il resto sono solo chiacchiere a cui l’assessore Rossi de Schio e la Giunta intera hanno dimostrato di essere estranei.

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