Gianmaria Zanzini, vicepresidente di Federmoda-Confcommercio Emilia Romagna
Giammaria Zanzini, referente provinciale e vicepresidente di Federmoda-Confcommercio Emilia Romagna: “Turismo, commercio e moda sono al collasso. Il nostro settore per ogni mese di chiusura perde un miliardo di euro. Parole e decreti ormai non si contano, ma le soluzioni sono deludenti, colme di burocrazia e di insidie. Nemmeno le banche stanno dando risposte”.
“Sono tante le parole spese e i decreti firmati, eppure i problemi per traghettare le attività fuori dalle secche della pandemia sono ancora insormontabili. Tutto il commercio, fatta eccezione per gli alimentari, tutte le attività legate al turismo e tutta la filiera della moda sono al collasso – spiega Giammaria Zanzini, rappresentante provinciale e vicepresidente di Federmoda-Confcommercio dell’Emilia Romagna -. Sento ogni giorno i commercianti del settore abbigliamento, accessori, pelletteria e calzature, che chiusi da oltre un mese e non riescono a fare fronte agli impegni. Per il nostro settore in un mese di lockdown è stata calcolata la perdita di un miliardo di euro. Siamo delusi e arrabbiati per gli interventi di sostegno previsti, che in realtà non sostengono nulla. Siamo delusi e arrabbiati perché il nostro governo pensa di aiutarci facendoci fare altri debiti, senza misure a fondo perduto e senza la cancellazione delle imposte, dunque sbagliando l’approccio al problema. Ci manca la liquidità per pagare fornitori, utenze, affitti e anche per le tasse, che sono state solamente fatte slittare di un paio di mesi. I 600 euro di indennità per le partite iva? Di certo per chi gestisce attività nel nostro settore, valgono meno di un palliativo. Nonostante i chiarimenti richiesti, ancora non si capisce se come commercianti possiamo sospendere i versamenti tributari e contributivi secondo l’Art. 61 del DL Cura Italia. Chiediamo alle amministrazioni locali, che ringraziamo per il grande lavoro di centinaia di sindaci, di annullare per quest’anno tutte le tasse territoriali a chi non può pagarle. Sarà poi lo Stato con la sua garanzia a aprire linee di credito per i Comuni, anche perché se il commercio scompare o si dimezza, di entrate fiscali non se ne parlerà per un bel pezzo.
Al disastro di questo periodo, prima sanitario e poi anche economico (Bankitalia stima per ogni mese di lockdown la perdita di 2 punti percentuali di Pil, sostanzialmente 36 miliardi di Euro), si aggiungono i problemi con gli istituti di credito, demandati dal governo a concedere i prestiti secondo il DL Liquidità, a cui invece oggi più che mai è richiesto un intervento massiccio a favore delle imprese.
Chi in questi giorni contatta le banche ascolta sempre le stesse risposte, ovvero che ancora non ci sono indicazioni su come erogare i finanziamenti, che mancano i chiarimenti e che non resta altro che riprovare più avanti. Se poi, nonostante la delusione, si va nelle pieghe del provvedimento, si capisce bene che le imprese che hanno già un’alta esposizione con le banche o non hanno un adeguato merito creditizio, non potranno accedere al credito nemmeno nella forma dei famosi 25.000 euro garantiti interamente dallo Stato. Che poi 25.000 non sono perché la cifra massima erogabile resta comunque il 25% del fatturato. Il modulo di richiesta poi è stracolmo di insidie, a cominciare dalla piena responsabilità del richiedente sui rimborsi, per passare all’eventuale pagamento di spese e sanzioni se il Fondo di Garanzia non dovesse dare parere positivo. Ma questi soldi secondo il governo non erano smarcati dalle procedure del Fondo di Garanzia? Burocrazia su burocrazia e il rientro nel breve periodo sono le risposte avute, mentre i commercianti e tutte le micro e piccole imprese hanno bisogno di velocità e chiarezza. E vogliamo parlare dei tassi di interesse richiesti? Non certo tasso zero o poco più come annunciato, ma tassi che arrivano a sfiorare il 2%, insomma quelli di un normale finanziamento aziendale. Abbiamo fortemente chiesto la sospensione dei titoli di credito in essere, ma anche su questo non siamo stati ascoltati.
Non possiamo accontentarci di tutto questo. Il nostro settore, lo ricordo, conta 115.000 punti vendita e dà lavoro a 313.000 persone in Italia. Un settore costituito per lo più da imprese di piccole dimensioni che già da tempo lottano per resistere mettendocela tutta. Basti pensare che negli ultimi otto anni abbiamo perso abbiamo perso 60.706 imprese, a fronte di sole 26.000 nuove aperture. Adesso questo. Certo nessuno poteva prevederlo. Ora però è a rischio il posto per 30.000 lavoratori con un effetto domino su tutta la filiera.
Basterebbero questi numeri, senza aggiungerci la valenza sociale dei negozi di vicinato, per capire che la risposta non può essere l’accensione di altri debiti, sempre che ci si riesca. Perché i debiti poi dovranno essere ripagati a breve termine e mi domando come faremo, visto che, anche con tutto il nostro impegno, servirà tempo prima per riaprire, poi per fare riabituare le persone a entrare nei nostri negozi. Occorrono altri strumenti che il Governo e le parti sociali insieme devono trovare. Non è possibile pensare sempre che ad essere salvato debba essere il grande gruppo: si deve fare di tutto per salvare tutte le imprese, anche le nostre, che sono alla base del tessuto economico e sociale del Paese”.