Tratto da lavoce.info
di Massimo Bordignon, professore ordinario di Scienza delle Finanze presso l’università Cattolica di Milano
e Gilberto Turati, professore ordinario di Scienza delle Finanze presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore
La Corte costituzionale ha definitivamente chiarito che la gestione delle politiche contro le epidemie spetta allo stato. Diventa così pretestuoso tutto il dibattito sul Titolo V. Ma va costruito un più corretto rapporto istituzionale centro-periferia.
Una gerarchia ben chiara
La sentenza della Corte costituzionale in merito alla legge regionale 11/2020 della Regione autonoma Valle d’Aosta chiarisce definitivamente una questione fondamentale, come sottolineato anche da autorevoli giuristi. La legge della Val d’Aosta imponeva misure di contrasto all’epidemia di Covid-19 differenti da quelle previste dalla normativa statale. La sentenza della Consulta stabilisce invece che la gestione delle politiche per affrontare la pandemia rientra nella materia “profilassi internazionale” e non in quella della “tutela della salute”. Questo significa che, in base all’articolo 117 della Costituzione, si tratta di una materia di competenza esclusiva dello stato centrale e non di una materia di legislazione concorrente tra stato e regioni. In soldoni, nel campo delle politiche di contrasto alle epidemie, lo stato comanda e le regioni ubbidiscono. O almeno così dovrebbe essere sulla base della distribuzione delle competenze come definite dalla Costituzione.
La conclusione della Corte costituzionale non sorprende alla luce della lettura del Piano pandemico nazionale, dove questa gerarchia è ovvia e reiterata; tant’è che lo avevamo notato anche noi, che giuristi non siamo, in articoli precedenti.
Una scelta politica
La sentenza della Corte costituzionale ha una serie di implicazioni importanti, sia per l’interpretazione del recente passato che per il futuro. In primo luogo, tutto il dibattito che si è scatenato in questi mesi di pandemia sul Titolo V, cioè sulla riforma costituzionale che nel 2001 ha dato maggiori competenze legislative alle regioni, è fuorviante. Ci possono essere naturalmente altre ragioni per decidere di rivedere il Titolo V; ma non si può attribuire a quest’ultimo la gestione conflittuale della pandemia tra stato e regioni. Le norme ci sono e sono chiare; e avrebbero consentito una gestione più unitaria degli interventi contro il Covid fin dall’inizio (dalla ri-organizzazione degli ospedali fino alla somministrazione dei vaccini); gestione unitaria che invece è largamente mancata.
Pare anche difficile sostenere che il governo non abbia seguito questa strada perché mancava di competenze giuridiche appropriate; se c’è una cosa che non manca alla burocrazia italiana, deficitaria in tanti altri campi, sono proprio i buoni giuristi. Perché allora il governo ha preferito seguire una strada diversa? La ragione è probabilmente politica. Un governo debole, sostenuto da una coalizione di centro-sinistra, non se l’è sentita di andare allo scontro con regioni in larga parte sotto il controllo del centro-destra, oltretutto con presidenti fortemente legittimati dall’elezione diretta. Ha preferito dunque cercare la strada della “collaborazione istituzionale” che, tra l’altro, ha consentito ai due livelli di governo di praticare il gioco del cerino, scaricandosi addosso, a fasi alterne, le responsabilità. Se questo ha significato, e significa tuttora, una cacofonia delle proposte e delle politiche contro la pandemia, pazienza.
Guardando al futuro, si affacciano due considerazioni. Primo, per quanto riguarda la pandemia, la speranza è che la chiarezza legislativa imposta dalla sentenza della Corte costituzionale e il fatto che il governo sia ora sostenuto da una coalizione straordinariamente ampia consentano una gestione più unitaria ed efficiente delle politiche di contrasto, soprattutto nella attuale fase cruciale di distribuzione del vaccino. Il rischio è invece che le tensioni sulle scelte dolorose che comunque dovranno essere prese, in passato limitate al conflitto tra stato e regioni, si estendano ora all’interno del governo, con l’effetto di generare veti incrociati e blocco delle decisioni. Confidiamo nell’azione del presidente del Consiglio per evitare che questo avvenga.
Secondo, il sistema istituzionale italiano va comunque ripensato. Serve una camera di compensazione dei conflitti tra il centro e le periferie (non solo le regioni, ma anche i comuni). Tramontate le ipotesi di Senato federale o Senato delle regioni, con il fallimento delle ultime due proposte di riforma costituzionale (2006, 2016), vanno cercate e trovate altre soluzioni. A partire da un rafforzamento del ruolo della Conferenza permanente per i rapporti tra lo stato e le regioni. Cercasi costituzionalisti e scienziati politici per un contributo in questa direzione.