Tratto da lavoce.info
DI GIUSEPPE FRANCESCO GORI, ricercatore presso l’IRPET (Istituto Regionale Programmazione Economica della Toscana)
E PATRIZIA LATTARULO, dirigente di ricerca presso l’Irpet (Istituto regionale di programmazione economica della Toscana)
Dopo anni di stagnazione, i comuni ora programmano nuovi lavori pubblici. La ripresa degli investimenti degli enti locali potrebbe essere dovuta a un assetto regolatorio più semplice, che tuttavia apre altre problematiche. Le prospettive legate al Pnrr.
La spesa dei comuni in lavori pubblici
Gli enti locali, e le amministrazioni comunali in particolare, sono responsabili di una parte molto importante dei lavori pubblici nel nostro paese. Ogni anno avviano mediamente il 58 per cento del totale delle procedure, seppure in termini di importo si tratti solo del 28 per cento, comunque quasi un terzo del valore complessivo. Agli interventi dei comuni – per lo più di medio-piccola dimensione finanziaria – viene dedicata molta attenzione per la loro naturale e capillare diffusione territoriale e per la conseguente capacità di attivazione del tessuto economico locale. Per questi motivi gli investimenti degli enti locali occupano un posto importante anche all’interno del Piano nazionale di ripresa e resilienza, come fattore chiave per la ripresa economica. Proprio la prospettiva dell’afflusso di un’ingente mole di risorse legata alla realizzazione del Pnrr ha generato preoccupazione riguardo alla effettiva capacità di attivazione degli investimenti da parte degli enti locali.
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Infatti, il comparto comunale è quello che ha più sofferto sul fronte degli investimenti pubblici, a partire dall’implementazione delle misure di contenimento fiscale post crisi finanziaria e, poi, per la riforma del Codice dei contratti (Dlgs 50/2016) che ha rappresentato un vero shock normativo, inducendo una brusca frenata nell’attività di procurement delle amministrazioni decentrate.
Se lo shock è stato in parte riassorbito già dal 2017 per le amministrazioni del Centro-Nord Italia, dal 2018 si è assistito a una progressiva ripresa dei volumi di procedure su tutto il territorio nazionale. La spinta prodotta dalle nuove procedure sulla spesa per investimenti degli enti si manifesterà naturalmente nell’arco del biennio successivo, quando i lavori verranno effettivamente avviati e le risorse erogate al sistema produttivo. È in corso un ampio dibattito su quali regole abbiano determinato l’evoluzione del settore e come potranno incidere sulla capacità di utilizzo delle nuove risorse.
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La principale causa della stagnazione decennale degli investimenti dei comuni, oltre che nella limitata disponibilità di risorse finanziarie, viene spesso individuata nella scarsa capacità di gestire procedure complesse, anche per l’incremento, nel tempo, della complessità tecnica dei lavori. Un fattore, questo, che naturalmente dipende, oltre che dall’esperienza maturata negli anni, anche dalla disponibilità di risorse umane qualificate. In particolare, i medi e piccoli comuni (fino a 10 mila residenti, che rappresentano l’85 per cento delle amministrazioni comunali) hanno avviato nell’ultimo periodo circa 10-17 lavori all’anno, di importo medio inferiore ai 250 mila euro, troppo poco per garantire accumulazione di esperienze tecniche specializzate.
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I fattori della crescita
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Per facilitare una ripresa degli investimenti, e affrontare il problema della frammentazione territoriale, sulla scorta di queste evidenze, il codice riformato del 2016 introduceva una spinta alla centralizzazione della committenza, proprio a partire dalla valutazione della qualificazione delle stazioni appaltanti. Questo ha indotto alla costituzione di numerose centrali di committenza intercomunali, la cui attività è cresciuta, almeno fino al 2018.
Tuttavia, alla luce dei dati della congiuntura più stretta, che vedono tra l’altro l’interruzione del processo di aggregazione della committenza comunale, la ripresa dei volumi delle procedure sembra essere stata trainata da altri fattori. A partire dal 2018, infatti, unitamente all’allentamento delle misure di consolidamento fiscale (eliminazione del Patto di stabilità interno, sblocco degli avanzi), con i decreti Sblocca cantieri e Semplificazioni, il legislatore ha intrapreso una strada di alleggerimento del carico amministrativo legato all’avvio di nuove procedure. L’effettiva realizzazione delle misure contenute nei due decreti è stata sostanzialmente immediata per il fatto che – a differenza di quanto accaduto con la riforma del Codice del 2016 – la loro azione prevalente è concentrata su aspetti di carattere non strutturale, ovvero tali da non modificare l’organizzazione interna delle stazioni appaltanti e il loro processo amministrativo.
L’incremento del numero di affidamenti diretti, in particolare, rappresenta l’evidenza più forte a sostegno della tesi che le misure abbiano avuto un ruolo nel sostenere la dinamica del valore complessivo dei contratti. Se dal 2016 al 2018 compreso, la quota-numero degli affidamenti diretti si era sostanzialmente dimezzata rispetto a quella del periodo immediatamente precedente, a partire dal 2019 cresce rapidamente fino a raggiungere oltre il 40 per cento, andando a discapito di procedure negoziate e aperte, entrambe caratterizzate da un livello di complessità superiore.
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Inoltre, mentre l’incremento nel numero degli affidamenti diretti, in termini di quota sul totale delle procedure, è del tutto simile per i comuni appartenenti alle tre classi dimensionali, il valore incide comprensibilmente di più sulla commessa dei piccoli e medio-piccoli comuni.
In conclusione, ferma restando la difficoltà di stabilire su una base quantitativa se i recenti buoni andamenti della commessa comunale siano da imputare prevalentemente al quadro di norme semplificato introdotto a partire dal 2018 o a fattori di natura economico-finanziaria, il dato congiunturale suggerisce che l’assetto regolatorio attuale sia più favorevole a sostenere la nuova domanda comunale di lavori pubblici.
Ciononostante, rispetto al ricorso a procedure semplificate e non competitive, la Corte dei Conti e in generale molti osservatori hanno sollevato alcuni ragionevoli interrogativi in merito all’incremento di discrezionalità delle stazioni appaltanti e alla connessa probabilità di permeazione del mercato del procurement da parte di fenomeni di illegalità. A questo si aggiunga il rischio di interruzione del processo di riforma del mercato nel senso di una riduzione dei centri di spesa e di semplificazione del sistema delle stazioni appaltanti. Quest’ultimo punto, in particolare, potrebbe dar luogo a importanti economie nel medio periodo, sia per la riduzione dei costi in fase di affidamento sia, in misura più rilevante, in fase di progettazione e programmazione, garantendo un cambio di scala nella dimensione e nella qualità degli interventi.
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