DI LUCIA VALENTE, Professore Ordinario di Diritto del lavoro nel Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche della Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza
La scelta di dar vita a una nuova compagnia aerea di stato è condizionata dalla Ue a una rigorosa discontinuità aziendale rispetto ad Alitalia che sembra però in contrasto con il diritto del lavoro europeo e con la collocazione dei dipendenti in Cassa integrazione.
La finta discontinuità fra Alitalia e Ita
Alle 10 di sera del 14 ottobre è atterrato a Linate l’ultimo volo della compagnia Alitalia che con esso ha cessato ogni attività di trasporto aereo. Alle 6 di mattina del 15 ottobre è decollato da Linate per Bari-Palese il primo volo della compagnia Ita, interamente posseduta e finanziata dallo stato italiano. La Commissione europea ha autorizzato l’avvio della nuova impresa con denaro pubblico sotto la condizione che rispetto ad Alitalia ci fosse una totale “discontinuità”; sta di fatto, però, che a volare per Ita dal 15 ottobre sono gli stessi velivoli che fino al 14 lo hanno fatto per Alitalia, con lo stesso personale (sono passati alla nuova compagnia, a oggi, circa 1.900 ex-dipendenti di Alitalia, sia piloti e assistenti di volo, sia amministrativi), con la stessa sigla internazionale di identificazione Az e con velivoli che – almeno in questi primi giorni di attività – recano quasi tutti ancora la stessa livrea!
La Commissione vincola Ita a esordire con un numero di aerei ridotto della metà rispetto alla flotta Alitalia e a utilizzare soltanto una frazione dei preziosi “slot” aeroportuali di decollo e atterraggio di cui ha fin qui disposto Alitalia. Le vieta, inoltre, di continuare l’attività di handling e di manutenzione aeroportuale gestita da Alitalia per le quali si dovrà procedere con una gara aperta e competitiva. Condizioni, queste, che vengono imposte nell’interesse delle compagnie aeree concorrenti, le quali da anni protestano contro gli aiuti di stato che hanno sistematicamente puntellato l’attività della compagnia di bandiera italiana. Ma, a ben vedere, più che di “discontinuità” si tratta in realtà soltanto di un drastico ridimensionamento dell’attività dell’azienda. In cambio Ita non sarà responsabile per i 900 milioni di euro che Alitalia dovrà rimborsare allo stato italiano.
Mentre sono ben comprensibili le ragioni che spingono le compagnie aeree concorrenti a esigere questo ridimensionamento, molto meno comprensibili appaiono le ragioni che spingono lo stato italiano a investire, dopo avere speso 14 miliardi a fondo perduto nei vent’anni passati per tenere in vita Alitalia, altri 1,35 miliardi nei prossimi tre anni. Tanto più che sulla nuova compagnia pende la spada di Damocle di un’imminente azione giudiziaria promossa da tutti i sindacati, interessati a far valere quella che dal punto di vista giuslavoristico, sia per l’ordinamento nazionale sia per quello europeo, è una sostanziale continuità aziendale. Se l’effettiva continuità verrà riconosciuta dai giudici del lavoro, la nuova compagnia sarà tenuta a riconoscere la continuità dei rapporti di lavoro e ad applicare la disciplina collettiva applicata fino a ieri ai rapporti di lavoro Alitalia senza poter scegliere in modo unilaterale, come sta facendo, il trattamento economico applicabile ai propri dipendenti. Questo, del resto, è anche previsto da una norma del decreto “Cura Italia” del 2020, con il quale è stato approvato il varo della nuova compagnia, e da una norma (l’articolo 203) del decreto “Rilancio”, anch’esso emanato nel 2020 dal Governo Conte-bis, che obbliga tutti i vettori aerei ad applicare gli standard minimi nazionali di settore sanzionandoli in caso contrario con la revoca di concessioni, autorizzazioni e certificazioni. Non è dunque affatto improbabile che uno dei pilastri del piano industriale di Ita, costituito da un drastico taglio dei costi del personale, sia ben presto destinato a venire meno.
La finta sospensione del lavoro dei dipendenti Alitalia
Intanto, alle dipendenze della società Alitalia in liquidazione rimangono circa 5.750 persone, molte delle quali già in Cassa integrazione da anni. Ed è una integrazione speciale, perché “integrata” dal Fondo volo (finanziato con una tassa su ciascun biglietto aereo venduto in Italia), che consente di arrivare all’80 per cento effettivo dell’ultimo stipendio, senza il “tetto” di circa 1.200 euro mensili che si applica alla generalità dei lavoratori.
Anche questa Cig privilegiata, comunque, non sembra affatto giustificata visto che Alitalia ora è in liquidazione ed è certo che non potrà più dare alcun lavoro né al personale di volo né al personale amministrativo. Nella prospettiva di un futuro improbabile riassorbimento di tutto il personale in Ita, la società Alitalia in liquidazione continua invece a considerare i propri dipendenti “sospesi temporaneamente” dal lavoro; l’Inps continua ad attivare per loro la Cassa integrazione; e il decreto fiscale cui il governo sta lavorando stanzia 63,5 milioni per la proroga del trattamento Cig fino a tutto il 2022 e altri 212,2 milioni per rifinanziare il Fondo volo (quello che garantisce ai dipendenti Alitalia l’80 per cento della retribuzione effettiva, senza “tetto”).
Ma la cosa più sorprendente di tutte è che, in questa situazione, i sindacati di categoria rivendicano a gran voce che tanto l’intervento della Cassa integrazione quanto quello del Fondo volo per gli ex-dipendenti Alitalia vengano garantiti a priori e senza alcuna condizionalità, fino al 2025 data entro la quale dovrebbe essere completato il piano industriale di Ita: il nuovo vettore aereo che, secondo le disposizioni della Commissione europea, con Alitalia non dovrebbe avere niente a che fare.
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