Tratto da lavoce.info
DI FABIANO SCHIVARDI, professore di economia alla LUISS
Al picco della crisi, lo Stato è al massimo della sua presenza. Sempre più spesso è arbitro e giocatore sul mercato e nella vita delle imprese. Con l’attenuarsi della pandemia si dovrà procedere a un graduale ridimensionamento della mano pubblica.
La mano pubblica in tempo di crisi
La presenza diretta dello stato nell’economia si è sempre espansa nei periodi di crisi. Non sorprende che in questa fase, caratterizzata da un succedersi di crisi che sembra non finire mai, sia tornato al centro del dibattito quanto lo stato si debba fare carico direttamente dell’attività economica.
Le varie crisi che si sono susseguite dal 2009 in poi hanno infatti accresciuto la sfiducia dei cittadini nella capacità del sistema di mercato di autoregolarsi. Alle varie crisi si aggiunge un processo sottostante di globalizzazione non sufficientemente governata, che ha reso più insicura una larga fetta di popolazione. Anche il progresso tecnologico ha colpito la “classe media”, riducendo l’occupabilità dei lavoratori con competenze di grado “intermedio” e addetti a compiti rutinari, più facilmente sostituibili da computer e robot.
Infine, i processi politici hanno portato alla ribalta il problema della sovranità tecnologica e del controllo delle imprese “strategiche”.
La spinta per una maggior presenza dello stato nell’economia è quindi più forte che mai. Interrogarsi su quali modalità questo intervento debba seguire è fondamentale, anche alla luce del Piano nazionale di ripresa e resilienza.
In realtà, non abbiamo una teoria condivisa per fornire una risposta articolata alle questioni. Procediamo per tentativi, ed è quindi particolarmente utile raccogliere il parere di chi è sul campo e si confronta quotidianamente con meriti e demeriti di mercato da una parte e di stato dall’altra.
Dai partecipanti al Forum “La mano pubblica e l’uscita dalla crisi” al Festival dell’Economia ascolteremo in quale misura ritengano che una maggior presenza diretta dello stato nell’economia possa essere un ingrediente chiave della risposta.
Per strutturare la discussione, possiamo utilizzare un paragone calcistico:
1. Lo stato arbitro. In questo modello, riferibile alla scuola di Chicago, lo stato garantisce le regole del sistema economico e interviene direttamente solo per correggere eventuali fallimenti di mercato. Lo stato interviene solo se c’è un comprovato fallimento di mercato.
2. Lo stato giocatore. In questo caso, si ritiene che i fallimenti di mercato siano così ubiqui che lo stato debba intervenire direttamente – è il modello Iri, in cui lo stato produce panettoni.
3. Lo stato allenatore. In quest’ottica, lo stato non produce direttamente, ma dirige il sistema economico con interventi diretti di minoranza nel capitale, esercitando poteri di interdizione su passaggi di proprietà, accompagnando le imprese in processi di crescita per far nascere i “campioni nazionali”.
Il dibattito attualmente oscilla fra il modello “giocatore” (Ilva, Alitalia) e quello “allenatore” (Fondo italiano di investimento). Ma cosa è cambiato rispetto alle esperienze del secondo dopoguerra che giustifichi uno stato che torna a farsi imprenditore? E quali sono le basi teoriche per uno stato allenatore? È in grado di scegliere chi deve diventare campione nazionale? Quali aziende sono da proteggere? Con che modalità si possono garantire percorsi di crescita? Perché questi percorsi non sono innescati da operatori di mercato? E, all’interno di questo ruolo, quanto è importante aiutare gli operatori di mercato a svilupparsi, ad esempio fornendo risorse ma delegando a loro le scelte operative, rispetto a sostituirsi a loro?
Cosa succederà con le Pmi?
Con gli stessi interlocutori del Forum discuteremo anche un’altra questione. La pandemia ci lascerà con una presenza dello stato “gonfiata” dai molti interventi fatti, in particolare quelli relativi al credito garantito.
Passata la fase emergenziale, come si potrà uscire da questa situazione? Per le imprese finanziariamente fragili, i crediti verranno convertiti in equity, con uno stato che entra nel capitale delle piccole imprese? O bisognerà scegliere chi salvare e chi lasciar fallire? Date le peculiarità dell’Italia, caratterizzata da un tessuto produttivo con una nutrita platea di piccole imprese a proprietà e gestione familiare, poco propense a fare innovazione, quali strumenti si possono mettere in campo? Uno “stato allenatore” può sfruttare la crisi per cercare di superare alcune tare storiche del nostro sistema industriale, come la scarsa apertura al capitale esterno e, soprattutto, alle competenze manageriali al di fuori del perimetro della famiglia?
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