Tratto da lavoce.info
di Luisa Torchia, professore ordinario di Diritto amministrativo presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di RomaTre
Il valore del Recovery Plan non sta tanto nelle ingenti risorse, quanto nell’imporre la necessità di ben progettare, valutare e realizzare i progetti in tempi definiti. Le istituzioni italiane devono imparare ad assumere impegni realistici e mantenerli.
Pnrr, un “esercizio di apprendimento”
Nel corso dell’audizione dell’8 marzo davanti alle Commissioni congiunte del Senato e della Camera nell’ambito dell’esame della proposta di Piano nazionale di ripresa e resilienza (Doc. XXVII, n. 18) Il ministro dell’Economia Daniele Franco ha affermato che “il Pnrr costituisce un esercizio di apprendimento senza precedenti per le istituzioni italiane” (p. 16).
Si tratta di un’affermazione significativa, dalla quale traspare la consapevolezza dei rischi come delle opportunità che la costruzione, l’approvazione e l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza comportano per il sistema italiano nel suo complesso.
I rischi e le opportunità sono naturalmente legati all’importo delle risorse finanziarie che il Next Generation EU mette a disposizione dell’Italia, ma vanno ben oltre e hanno rilevanza sia nazionale, sia europea. L’importo delle risorse è certamente significativo, ma non di per sé decisivo, se solo si considerano sia le grandezze degli scostamenti di bilancio sinora autorizzati per sostenere l’economia durante l’anno trascorso dall’inizio della pandemia, sia le altre risorse per il periodo 2021-2027 previste dal Quadro finanziario pluriennale, dal Fondo per lo sviluppo e la coesione e dai fondi di durata quindicennale, puntualmente elencate nell’audizione del ministro.
L’Italia può aspettarsi di ricevere dal Recovery Fund, secondo le ultime stime, 191,5 miliardi fra finanziamenti e prestiti e quindi un po’ meno di 40 miliardi all’anno per il periodo 2022-2026, con un possibile anticipo del 13 per cento nel 2021. Si tratta di cifre considerevoli, che sarebbe stato difficile immaginare nel passato ventennio di austerità finanziaria (seppure più proclamata che praticata), ma che oggi, nel mutato paradigma di finanza pubblica emerso per far fronte alla pandemia, da sole non fanno necessariamente la differenza in termini puramente finanziari.
La differenza, e quindi il vero valore del Recovery Plan, potrebbe stare invece proprio in quell’inedito “esercizio di apprendimento” evocato dal ministro Franco. La disciplina europea del meccanismo impone, infatti, che per accedere alle risorse l’Italia sia in grado di programmare e progettare gli interventi in tempi rapidi (la prima scadenza è a fine aprile 2021). Che di questi interventi siano chiari i tempi di realizzazione e l’impatto. Che siano misurabili, e misurati nel corso della realizzazione, gli obiettivi intermedi e finali raggiunti, come condizione per il pagamento dei fondi. Che, quindi, il meccanismo di monitoraggio e di rendicontazione dei risultati sia subito strutturato. Che i tempi di realizzazione siano rispettati e che nel 2026 tutti gli interventi siano conclusi.
Opportunità e rischi
Qui sta, per l’Italia, il valore maggiore del Recovery Plan: nella necessità di costruire e mettere in pratica la capacità di ben progettare (e non solo di proclamare), di valutare a priori e a posteriori sulla base delle evidenze e non delle suggestioni, di realizzare in tempi definiti senza rinvii e dilazioni infinite: in una parola, di assumere impegni realistici e di mantenerli.
Qui sta, naturalmente, anche il rischio maggiore, per ragioni note e spesso ricordate nel dibattito sul Recovery Plan, quali, per fare solo qualche esempio, l’arretratezza e le difficoltà di funzionamento del sistema amministrativo, la frammentazione delle competenze fra tanti soggetti e livelli di governo, un quadro normativo e regolatorio complesso e farraginoso, la prevalenza dei controlli di legittimità sui controlli di risultato. Di qui anche la tentazione ricorrente di procedere per via di eccezione sul piano delle regole, di sostituzione sul piano delle strutture, di misure generalissime sul piano della semplificazione di oneri e controlli e di ricerca delle competenze necessarie attraverso piani di reclutamento che raramente producono i risultati attesi. Si tratta, però, di misure la cui efficacia è dubbia, come dimostra l’esperienza passata, dalla quale pure sarebbe utile apprendere.
Il vero valore del Recovery Plan potrebbe stare, allora, nel cambiare approccio e invece di immaginare riforme generali dell’amministrazione per gestire le risorse del Recovery and Resilience Facility, provare a costruire intorno agli specifici progetti e interventi del Recovery Plan le regole e le strutture necessarie, riutilizzando anche ciò che di buono – e non è poco – già c’è nel sistema amministrativo italiano (intendendolo comprensivo delle migliori università e centri di ricerca). L’assetto di governance per ora prefigurato, concentrato sul ministero dell’Economia e delle Finanze con la collaborazione di ministeri più direttamente coinvolti nelle missioni del Recovery Plan, potrebbe garantire il necessario coordinamento, magari cominciando con la costruzione di una piattaforma unitaria delle informazioni e dei dati che realizzi il sogno, inseguito da anni e finora mai realizzato, della interoperabilità delle banche dati delle amministrazioni: le norme che la prevedono – o addirittura la impongono – ci sono già, basta la volontà di attuarle.