Tratto da lavoce.info
di Carlos Corvino, dottore di ricerca in Sociologia dei processi economici, del lavoro e delle organizzazioni.
e Francesco Giubileo, dottore di ricerca in Sociologia del lavoro
Se le aziende non trovano personale tecnico, non è colpa del reddito di cittadinanza, ma di un sistema che punta su bassi salari e contratti di breve durata. Si deve investire in servizi alle imprese e politiche attive del lavoro di medio-lungo termine.
Perché non c’è un “carosello dei benefici”
Basta leggere alcune notizie di giornale come “Imprenditore cerca personale, ma nessuno vuole perdere il reddito di cittadinanza” per comprendere quanto il reddito di cittadinanza sia messo in discussione per la sua capacità di influire sulla partecipazione al mercato del lavoro da parte dei suoi beneficiari.
In letteratura, è noto l’effetto provocato dal cosiddetto “carosello dei benefici” prodotto negli anni Novanta dai generosi sussidi di disoccupazione in Danimarca, dove il periodo di indennizzo (di varia natura e combinato a strumenti di Job Creation) poteva superare i nove anni con una somma parametrata a oggi di oltre 2mila euro mensili. Ovviamente, un sistema del genere aveva prodotto problemi di sostenibilità finanziaria e scarsa propensione al lavoro da parte dei beneficiari, e nacque da qui, nel 2002, il programma “Più persone al lavoro” che ha rappresentato uno dei pilastri della cosiddetta flexicurity danese.
Tuttavia, l’ammontare del “nostro” reddito di cittadinanza varia tra i 500 e i 1.000 euro, a seconda della composizione familiare, e la maggior parte dei percettori del Rdc rientra nei cosiddetti “super-svantaggiati”, soggetti abili al lavoro ma che hanno notevoli difficoltà nel ricollocarsi. È parere diffuso tra gli operatori dei centri per l’impiego che, nel migliore dei casi, queste persone necessitano di interventi intensivi e molto costosi per aumentarne l’occupabilità, mentre per una quota non secondaria spesso viene usato il termine “inoccupabile”.
Questione salariale e stabilità dei contratti
L’articolo citato in apertura racconta della difficoltà di un imprenditore in provincia di Cosenza di trovare “tecnici informatici”, i quali non sarebbero disposti al lavoro per non perdere appunto il reddito di cittadinanza. Un tecnico informatico ha uno stipendio medio di circa 1.300euro mensili e rappresenta, insieme al sistemista It, help desk e lo sviluppatore informatico, una delle figure più ricercate del mercato del lavoro. La scarsa reperibilità, in questo caso, non va imputata al nostro sistema di istruzione, in quanto quattro diplomati su dieci lavorano (gli altri studiano) e il tasso di occupazione dei laureati in informatica varia dal 93 al 96 per cento.
Le difficoltà sono dovute invece a diversi fattori, tra i quali: aspetti demografici; una errata progettazione del programma Garanzia giovani, troppo centrato sulle politiche attive del lavoro (bombardando il mercato di tirocini extra-curriculari) e meno sui programmi di contrasto alla dispersione scolastica; ma soprattutto a un serio problema salariale e di stabilità contrattuale.
In un mercato del lavoro in piena rivoluzione digitale, un tecnico informatico non lavorerà mai per 500 euro al mese e difficilmente lo si potrà reclutare con semplici tirocini extra-curriculari. La situazione appare ancora più complessa, dato che la maggior parte di coloro che si formeranno in discipline tecniche opteranno per esperienze all’estero, magari in quei paesi dove le retribuzioni sono nettamente più elevate, come ad esempio in Svizzera. In particolare, il Canton Ticino attraversa un progressivo invecchiamento della popolazione, pari a quello italiano, creando una fortissima richiesta di italiani in possesso di qualifiche tecniche e professionali.
Non c’è nessuna relazione tra il reddito di cittadinanza e la difficoltà di reperimento di personale di questo tipo, neppure il più preparato e competente navigator o “case manager” sarà in grado di trovare tecnici informatici disposti a lavorare per bassi salari e quasi sicuramente non li troveranno tra i percettori del reddito di cittadinanza.
A ciò si aggiunge un’altra questione, altrettanto rilevante. Il mercato del lavoro italiano, almeno nei nuovi rapporti di lavoro, si sta caratterizzando prevalentemente per la diffusione di “bad jobs”. Basta osservare le caratteristiche dell’analisi delle vacancy pubblicate negli ultimi dodici mesi, per rendersi conto di come la maggior parte delle professioni richieste siano mansioni di bassa qualifica (oltre 70mila addetti alla logistica, 63mila commessi o assistenti alla vendita, 62mila addetti alle pulizie o 41mila operai non qualificati). Confrontando poi questo dato con le comunicazioni obbligatorie emerge come oltre il 70 per cento dei rapporti instaurati siano contratti a termine (ad eccezione delle collaboratrici domestiche), con durate medie spesso sotto i tre mesi di lavoro continuativo.
La condizionalità prevista (ma mai applicata, mancano ancora diversi decreti attuativi) tra erogazione di reddito di cittadinanza e partecipazione a percorsi di politica attiva del lavoro avrà certamente lo scopo di “disincentivare” il ricorso al lavoro sommerso (fenomeno ampiamente diffuso tra i percettori), ma difficilmente queste azioni avranno successo in termini di esito occupazionale, perché le professioni più vicine al target dei super-svantaggiati risultano geograficamente distanti (sono nel Nord Italia) e perché l’accesso è intasato da un esercito di lavoratori a termine collocati nei bad jobs.
Inoltre, esperienze in altri paesi dove sono state applicate formule rigide di condizionalità, come nel Regno Unito, risultano efficienti in termini di costi, ma poco efficaci: più che inserire nel mercato del lavoro i più svantaggiati, li spingono a uscire dal sistema di assistenza, trasformandoli in inattivi.
C’è, infine, un nuovo fattore esploso con la pandemia Covid-19, ovvero la rivoluzione digitale che ha prodotto una vera e propria polarizzazione nel mercato del lavoro: le qualifiche più richieste (come i tecnici informatici, ingegneri, medici e infermieri) sono ancora più visibili e hanno maggiori opportunità di lavoro rispetto al passato; ma i soggetti più svantaggiati, oltre a non essere “appetibili” per il mercato, ora sono anche invisibili perché non in possesso di alcune competenze digitali o non in grado di confrontarsi correttamente con assistenti virtuali (Ats).
Investimenti in servizi alle imprese e alfabetizzazione digitale
Un Recovery plan per le politiche attive del lavoro può e deve ragionare nel medio-lungo termine e dare ulteriore spinta a una riforma del mercato del lavoro iniziata nel 2015 (con il decreto 150/2015) e continuata nel 2018 con il piano di rafforzamento nazionale dei servizi pubblici per il lavoro.
Le principali azioni si muovono nella continuità della sperimentazione realizzata dai navigator attraverso la piattaforma Moo, in quanto l’utilizzo di professionisti del mercato del lavoro che metta in contatto domanda e offerta, come servizio reso dalle politiche pubbliche, è di fondamentale importanza non solo per i potenziali beneficiari di reddito di cittadinanza, ma per la forza lavoro in generale, nonché per le imprese in fase di sviluppo.
A ciò si aggiunge una seria riflessione su come pianificare la transizione nel mercato del lavoro di una massa di percettori del reddito di cittadinanza di difficile occupabilità, a partire da progetti di alfabetizzazione digitale, anche attraverso la creazione di un “quasi-mercato” dei servizi digitali dedicati (come video-orientamento; fiere del lavoro settoriali; job scanner; e servizi che oggi ancora non immaginiamo neppure).