Tratto da lavoce.info
di Alessia Amighini, professore associato di Politica economica presso l’Università del Piemonte Orientale e Associate Senior Research Fellow nel programma Asia dell’ISPI
I rapporti diplomatici tra Unione europea e Cina sono tesi. Ma le relazioni economiche e commerciali continuano a crescere, anche in virtù della posizione della Germania sul mercato cinese. E della questione dei diritti umani si fa un uso strumentale.
Una relazione speciale tra Berlino e Pechino
Da sempre, le relazioni l’Unione europea e la Cina sono dominate dalla Germania, l’unico interlocutore europeo veramente in grado di tenere testa a Pechino in qualunque contesto politico o negoziale, in ragione anche delle intense e profonde relazioni economiche tra i due paesi. All’approccio della “rivalità sistemica” tra la Cina e tutte le democrazie liberali, capeggiate dagli Stati Uniti, Berlino ha sempre preferito quello del “partenariato strategico”: dal 2014, le relazioni tedesco-cinesi sono state definite una “partnership strategica globale”.
Da qualche tempo, però, le relazioni sino-tedesche si sono molto indebolite, complicate e, forse, persino compromesse. La stampa tedesca scrive che sarà difficile per la Germania da sola affrontare un rapporto così teso, che si potrebbe gestire meglio in un contesto europeo. Purtroppo, l’Europa ha le idee ancor meno chiare su come districarsi dalla situazione in cui essa stessa si è infilata da almeno trent’anni.
La questione dei diritti umani
A marzo 2021, per la prima volta dal 1989, l’Ue ha imposto sanzioni contro la Cina – motivate dalle violazioni dei diritti umani nella provincia dello Xinjiang contro gli uiguri musulmani. Eppure, di quanto accade nella provincia più grande della Repubblica popolare si sa da molto tempo. Tuttavia, fino a quando i rapporti tra Germania e Cina sono filati lisci, il tema dei diritti umani non è mai stato un deterrente nelle relazioni economiche dell’Europa con il gigante asiatico. Né tanto meno si sono fatte scrupoli le decine di aziende estere (non solo europee) alle cui reti di fornitura partecipano in qualche modo e da tempo imprecisato anche i lavoratori dei “campi di rieducazione” per la minoranza uigura: scrupolo non solo o non tanto morale, ma anche motivato dall’inevitabile danno reputazionale ed economico che sarebbe derivato quando tutto ciò fosse divenuto di dominio pubblico. Fintanto che queste grandi aziende hanno chiuso un occhio sull’impossibilità oggettiva, da sempre, di attuare una responsabilità sociale d’azienda seria che includesse i loro fornitori ubicati in Cina, il tema è rimasto comodamente sotto al tappeto. Ma oggi che la Germania si è accorta del pragmatismo ancor più spietato del capitalismo di stato cinese negli affari, e la questione è stata formalmente aperta a livello politico, si ritrovano dilaniate da un dilemma atroce: continuare a rifornirsi anche nello Xinjiang, e quindi perdere sui mercati occidentali, oppure mostrarsi apertamente a favore dei diritti umani dei lavoratori uiguri, e quindi perdere sul mercato cinese (che boicotta immediatamente chiunque si schieri contro le posizioni di Pechino).
La Cina ha reagito alla decisione europea imponendo a sua volta sanzioni a scienziati, studiosi e membri del Parlamento europeo. Da quel momento, la situazione si è fatta ancora più tesa: il 5 maggio, Bruxelles ha deciso di sospendere la ratifica dell’accordo di protezione degli investimenti (Cai) tra Ue e Cina. L’intesa è stata firmata alla fine dello 2020, dopo sette anni di negoziati ed è ritenuta uno dei maggiori successi della presidenza tedesca del Consiglio europeo. Già dopo l’introduzione delle sanzioni cinesi contro i parlamentari europei si poteva dubitare che Parlamento e Consiglio avrebbero ratificato l’accordo, ora la sospensione rende ancor più complicata la situazione.
Come se non bastasse, i motivi di conflitto con la Cina crescono. Il 23 aprile, il governo tedesco ha approvato la “seconda legge per aumentare la sicurezza dei sistemi informatici”. Il vero obiettivo è regolamentare il fornitore cinese di comunicazioni mobili Huawei: non gli sarà impedito di partecipare all’espansione della rete 5G in Germania, ma saranno poste alte barriere. In precedenza, l’ambasciatore di Pechino a Berlino, Wu Ken, aveva apertamente minacciato che il suo paese non sarebbe “rimasto a guardare” se Huawei fosse stata esclusa dalla rete 5G.
Un mercato indispensabile
Eppure, nonostante tutto, le relazioni economiche continuano a fiorire e a intensificarsi. Nel 2019 (l’ultimo anno con statistiche complete), Pechino è stata il più grande partner commerciale della Germania per il quarto anno di fila: le case automobilistiche tedesche vendono più veicoli in Cina che sul territorio nazionale. Non stupisce allora che il ministro degli Esteri Heiko Maas si sia sentito in dovere di dichiarare, dopo i colloqui con il suo omologo cinese Wang Yi della scorsa settimana, che, nonostante tutte le sfide, un “disaccoppiamento” di Cina e Germania sarebbe la strada sbagliata da seguire.
Per lo stesso motivo, l’Europa tutta non può aderire alla narrativa del “disaccoppiamento” che Donald Trump ha inaugurato e che Joe Biden non ha ancora concretamente smentito, sebbene siano in schiacciante minoranza le imprese statunitensi che hanno dichiarato di prendere in considerazione variazioni significative della loro esposizione verso la Cina. Al contempo, però, non è neppure accettabile continuare ad aderire alla narrativa cinese, quella che Xi avrebbe nuovamente ricordato alla cancelliera Merkel al telefono prima delle consultazioni intergovernative di inizio aprile. Secondo l’agenzia di stampa statale cinese Xinhua, Xi ha chiesto all’Ue di “eliminare i disturbi” e di “raggiungere la sua autonomia strategica”.
Oggi il trattamento degli uiguri da parte di Pechino è usato dagli Stati Uniti e dall’Europa in modo totalmente strumentale. Washington ha minacciato la possibilità di un boicottaggio delle Olimpiadi invernali del 2022 a Pechino, mentre il Bundestag discuterà a metà maggio se il trattamento degli uiguri debba essere etichettato come “genocidio” (fattispecie ampiamente discutibile). Entrambi usano la questione uigura per mostrare a Pechino che hanno qualche punto di forza e non sono totalmente succubi del mercato cinese. Ma Pechino sa bene che non si tratta di una minaccia credibile.
Intanto, alcune imprese tedesche hanno chiuso anche l’altro occhio e tolto dai loro siti le dichiarazioni contrarie all’utilizzo di fornitori dello Xinjiang, per non subire il boicottaggio dei consumatori cinesi. Con buona “pace” delle comunità uigure.