Tratto da lavoce.info
DI ALESSIA AMIGHINI, professore associato di Politica economica presso l’Università del Piemonte Orientale e Associate Senior Research Fellow nel programma Asia dell’ISPI
Da molti anni Pechino pianifica lo sviluppo di una tecnologia internet più in sintonia con gli obiettivi del paese. Il rischio è la creazione di un sistema di reti meno interoperabili, meno stabili e meno sicure. Le democrazie riusciranno a evitarlo?
L’importanza delle infrastrutture
Il G7 ha concluso la riunione di Carbis Bay lanciando una visione unitaria per “costruire meglio” e “ricostruire”. Forse si sarebbero potuti scegliere termini più ispirati, ma è indubbio che alla frontiera della concorrenza globale – non solo economica ma, sempre più, politica –vi sono le reti, molte delle quali da costruire o ricostruire.
Se le ben visibili reti di trasporto attirano da tempo il grande interesse di Pechino (si pensi alle recenti mire cinesi su una quota del porto di Amburgo, che a sua volta ha acquisito parte del porto di Trieste), meno visibili ma più insidiose sono le reti digitali.
Da molti anni la Cina pianifica un salto tecnologico, non necessariamente un sorpasso, quanto lo sviluppo di una tecnologia più indipendente e soprattutto più in sintonia con gli obiettivi del paese. Il 14° piano quinquennale per lo sviluppo economico (2021-2025) include anche quella che ha preso il nome di Digital Silk Road, volta ad aumentare la connettività digitale del paese con il resto del mondo, senza però aprirsi alle reti internazionali, anzi sviluppando un proprio internet e diffondendolo il più possibile. A questo si accompagna una grande presenza nelle piattaforme di e-commerce e il lancio della sua nuova valuta sovrana digitale, l’e-CNY. Lo sviluppo e l’esportazione di reti fisiche e digitali non è scollegato dall’internazionalizzazione finanziaria, anzi le prime sono strumentali alla seconda. Nell’insieme, infatti, Pechino si appresta a realizzare una serie di infrastrutture sulle quali far transitare – e controllare – dati e denaro.
Pechino ha favorito l’espansione di un suo campione nazionale – Huawei – che non gestisce solo le reti, ma ha appena annunciato un nuovo sistema operativo, HarmonyOS. L’azienda propone anche un ripensamento dalle fondamenta di internet, chiamato “New IP” e progettato per costruire la “sicurezza intrinseca” nel web. Sicurezza intrinseca significa che gli individui devono registrarsi per utilizzare internet e le autorità possono chiudere l’accesso di un singolo utente in qualsiasi momento. In altre parole, Huawei sta cercando di integrare il “credito sociale” cinese, la sorveglianza e i regimi di censura nell’architettura di internet.
Organismi aperti o istituzioni multilaterali?
La proposta di Huawei minaccia di frammentare internet in un pasticcio di reti meno interoperabili, meno stabili e anche meno sicure. La società ha aggirato gli organismi internazionali di standardizzazione, dove gli esperti potrebbero mettere in discussione le carenze tecniche della sua proposta. Ha lavorato invece attraverso l’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu) delle Nazioni Unite, dove Pechino ha più influenza politica.
Il fatto che Huawei abbia preferito il contesto multilaterale non è una sorpresa, anche se la giurisdizione dell’Itu non include l’architettura di internet. Quando si tratta di governance di internet, il Partito comunista cinese e altri regimi autoritari già da tempo favoriscono le istituzioni internazionali multilaterali, come l’Itu appunto, rispetto a quelle multistakeholder, come l’Ietf (Internet Engineering Task Force) o l’International Corporation for Assigned Names and Numbers (Icann). Gli organismi internazionali di questo tipo sono infatti governati da una gamma diversificata di rappresentanti dell’industria, della società civile e del governo, mentre le istituzioni multilaterali danno potere di voto solo ai governi nazionali. Nei contesti multistakeholder, i rappresentanti della società civile e dell’industria tendono a favorire un internet libero e aperto, il che diluisce l’influenza dei governi nazionali, molti dei quali ne preferirebbero uno strettamente regolato e censurabile.
Onu e Itu appaiono naturalmente più ricettivi rispetto a proposte come New IP, che concedono ai governi nazionali un maggiore controllo su internet. Per esempio, nel 2019, la Cina e la Russia hanno fatto leva su un simile blocco autoritario all’interno dell’Onu per far passare una risoluzione sui crimini informatici a loro favorevole. Oggi, una coalizione simile potrebbe aiutare la Cina a far passare la proposta del Nuovo IP. Eludere le istituzioni convenzionali per la governance di internet a favore dell’Itu stabilirebbe anche un precedente per le future proposte in questo ambito, che sempre più passerebbero attraverso l’organismo dell’Onu invece che attraverso istituzioni multistakeholder più equilibrate.
Né va dimenticato che la Cina ha avuto la presidenza dell’Itu negli ultimi sette anni. Durante il suo mandato come segretario generale, Houlin Zhao ne ha incoraggiato l’espansione da semplice agenzia di telecomunicazioni a “agenzia tecnologica”, lavorando su tecnologie non legate alle telecomunicazioni, come l’architettura internet, l’internet delle cose (IoT) e l’intelligenza artificiale.
La finanza corre su internet
Non sappiamo ancora se il G7 sarà disposto a sostenere un proprio campione (Ericsson, Nokia o Samsung) per costruire l’infrastruttura necessaria a tutte le economie del G7. Potrebbe essere una soluzione per permettere loro di recuperare il ritardo collettivo in un mondo in cui l’intelligenza artificiale sarà pervasiva. Sostenere l’espansione del 5G al di là del raggruppamento si rivelerà difficile, tuttavia. L’inclusione di alleati e partner al di fuori del G7, come l’Australia, la Nuova Zelanda e l’India, richiederebbe un sostanziale sostegno finanziario e una collaborazione tecnica.
Sulle reti digitali navigherà anche il futuro della finanza. Secondo un report pubblicato da Kpmg e H2 Ventures, nella classifica mondiale cinque aziende fintech cinesi si piazzano già tra le prime dieci. Rispetto a tutti gli altri paesi, la Cina è in testa anche in termini di utenti e di dimensione del mercato. I principali attori dell’industria fintech cinese sono in primo luogo i giganti del mondo di internet, quali Alibaba, Baidu e Tencent, che hanno tratto vantaggio dall’esiguo numero di concorrenti. Seguono Union Pay, Alipay e WeChat Pay, che possono essere utilizzati nella vita quotidiana non solo per i pagamenti online, ma anche per i pagamenti via Pos; e la quasi totalità dei residenti in Cina ormai utilizza regolarmente i QR code. La Cina si sta inesorabilmente trasformando in una società senza contanti, spesso anche senza un conto corrente o una carta di credito, ma quasi mai senza uno smart phone.
L’obiettivo cinese nel digitalizzare il paese è realizzare una forma avanzata – e inquietante – di stato che ha il controllo in tempo reale di tutti i movimenti e le transazioni dei propri cittadini attraverso i loro dispositivi mobili, la rete e le applicazioni internet.
Le democrazie ne perseguono uno ben diverso. Se tutto deve passare dalla rete, allora un internet libero e aperto è l’unica garanzia che il mondo non finisca diviso a pezzi, ciascuno delimitato dai confini delle proprie reti digitali.
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