Tratto da lavoce.info
di Alessia Amighini, professore associato di Politica economica presso l’Università del Piemonte Orientale e Associate Senior Research Fellow nel programma Asia dell’ISPI.
Pechino è ormai una potenza economica globale non solo commerciale, ma anche finanziaria. Ha costruito una rete molto sofisticata di accordi, istituzioni e transazioni finanziarie che hanno l’obiettivo di creare un’area parallela a quella del dollaro.
Cina, il più grande creditore ufficiale al mondo
Uno dei capitoli di politica estera più urgenti che il neo-presidente Usa Joe Biden dovrà affrontare è quello delle relazioni con Pechino. L’eredità di Donald Trump è pesante: rapporti bilaterali compromessi, sfiducia reciproca ai massimi storici, una batteria di dazi da gestire e i paesi alleati in attesa di capire quanto condivisa sarà la nuova politica statunitense in Asia.
Mentre Washington pensa a come contenere la Cina, Pechino accelera nell’espansione della sua influenza all’estero. A metà novembre 2020 ha concluso il più grande accordo commerciale regionale, Rcep (il Partenariato regionale del Pacifico), erede del Tpp di ispirazione statunitense (voluto da Bill Clinton e fatto naufragare da Trump), al quale partecipano i grandi alleati asiatici degli Stati Uniti.
Negli ultimi due decenni la Cina è diventata un attore dominante nel sistema economico e finanziario internazionale, è emersa come potenza economica globale non solo nel commercio ma anche sul fronte dei prestiti all’estero. In questo periodo, per la precisione tra il 1998 e il 2018, è diventata il più grande creditore ufficiale del mondo, superando anche il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale: i prestiti diretti e i crediti commerciali della Cina verso il resto del mondo sono passati da quasi zero a più di 1.600 miliardi di dollari, ovvero quasi il 2 per cento del Pil mondiale.
I prestiti vanno per lo più a paesi a basso e medio reddito e di conseguenza la Repubblica popolare cinese rappresenta oggi un quarto del totale dei prestiti bancari ai mercati emergenti. La presenza cinese è ancor più significativa nei paesi poveri, dove ha superato non solo i creditori privati, ma anche i creditori multilaterali come Fmi e la Banca Mondiale. Probabilmente tra tutte le forme di prestiti cinesi all’estero lo strumento meno noto è costituito dalle linee di swap su larga scala disposte tra la banca centrale della Repubblica popolare cinese e alcune banche centrali straniere: sono linee di credito permanenti tra le banche centrali e quindi un’altra forma di finanziamento ufficiale.
Aumenta la circolazione del renminbi
Da tempo, poi, la Cina persegue l’obiettivo di aumentare la circolazione della propria valuta fuori confine fino a creare un’area parallela a quella del dollaro. L’obiettivo è da intendersi non tanto come liberalizzazione del mercato valutario cinese, cioè un progressivo allentamento dei controlli sul tasso di cambio e sui movimenti di capitale, quanto piuttosto come un aumento della circolazione internazionale del renminbi, fermi restando i controlli su cambio e flussi di capitale.
A questo scopo, Pechino ha congegnato una rete molto sofisticata di accordi, istituzioni e transazioni finanziarie con un gran numero di paesi e attraverso di essa il renminbi viene usato come strumento per persuadere, convincere, attrarre e cooptare altri paesi a usare la valuta cinese, che in tal modo diventa un vero e proprio veicolo di soft power non solo finanziario, ma anche politico. Oggi sono due gli sviluppi che avranno un effetto positivo sull’uso del renminbi come valuta nel commercio internazionale: attraverso la Bri – la Nuova via della seta – la Cina esercita pressioni affinché sia utilizzato per il commercio transfrontaliero con i paesi partner attraverso la gestione del contante e per scopi di finanziamento e investimento in tutte le diverse fasi dei progetti. Inoltre, il renminbi sta perseguendo una de-dollarizzazione di alcune aree del mondo, dalla Russia al Sudest asiatico. Svincolarsi dal dollaro, per la Cina, significa ridurre la dipendenza finanziaria, ma anche politica, per poter creare progressivamente un blocco del renminbi.
Un decennio fa, quando la leadership cinese ha iniziato ad attuare piani straordinari per internazionalizzare il renminbi, la motivazione di Pechino era la reazione disillusa alla crisi finanziaria del 2008, che aveva mostrato la debolezza del sistema basato sul dollaro. A quel tempo, la Cina era pericolosamente esposta alla volatilità della valuta Usa, poiché la maggior parte delle sue passività erano in dollari, mentre la maggior parte dei suoi attivi erano in renminbi. Se la valuta cinese avesse raggiunto un ampio uso internazionale, lo squilibrio avrebbe potuto essere mitigato. Perciò influenti economisti e funzionari hanno proposto la liberalizzazione della valuta locale per stimolare la liberalizzazione finanziaria interna, come quella attuata da altri grandi paesi in passato.
Da allora la Cina ha creato un renminbi offshore guidato dal mercato, ha avviato centri di scambio in tutto il mondo con le banche designate a condurre l’attività e ha compiuto uno sforzo particolare per costruire centri di negoziazione del renminbi a Hong Kong e Londra. In tre anni il numero di banche che conducono operazioni in renminbi è salito da 900 a 10 mila. Pechino ha promosso il renminbi come valuta di regolamento per gli scambi commerciali della Cina, portando a notevoli risparmi per aziende come Samsung che non avevano più bisogno di scambiare renminbi con dollari. Ma Pechino non potrà mai liberalizzare il mercato finanziario interno, né quello valutario: il rischio di instabilità è troppo grande.
Per questo la componente politica in Cina rimane molto più grande. Come a Tokyo, il mercato per il controllo delle imprese è estremamente limitato e ciò costituisce un ostacolo a un importante afflusso di capitale. Anche il recente rafforzamento del sostegno al controllo centrale delle imprese statali e al consolidamento dei campioni nazionali va in questa direzione. Il sistema legale è ora sotto un controllo politico ancora più stretto, per cui gli operatori del mercato non sono sicuri di come verranno risolte le controversie. Sono soprattutto i controlli sul capitale a essere stati rafforzati, e non allentati come ci si aspettava. Attraverso un rafforzamento della sua statecraft finanziaria, in casa e con l’estero, Pechino punta a svincolarsi pian piano dal dollaro e dagli Stati Uniti, rendendo vana qualunque politica più o meno ragionata di “contenimento”.