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Home Economia

Economia. La crisi del lavoro in un’economia da Covid

Redazione di Redazione
25 Gennaio 2021
in Economia
Tempo di lettura : 4 minuti necessari
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Vignetta di Cecco

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Tratto da lavoce.info

di Tommaso Monacelli, professore ordinario di Economia all’Università Bocconi di Milano

La crisi da Covid ha avuto conseguenze diverse per i diversi settori economici e per i lavoratori che ne fanno parte. Lo shock potrebbe essere permanente e va affrontato con politiche che superino le rigidità sulla riallocazione settoriale del lavoro.

Cosa accadrà sul mercato del lavoro?

C’è forte preoccupazione per cosa succederà nel mercato del lavoro quando il blocco dei licenziamenti e il ri-finanziamento della cassa integrazione saranno sospesi. Cerchiamo qui di comprendere alcuni punti generali.

La crisi Covid genera forti asimmetrie tra settori economici. Immaginiamo un’economia con due settori (essenziale e non-essenziale) e due tipi di agenti (protetti e non protetti). I settori essenziali sono le catene alimentari, la salute, i servizi pubblici, ma anche quei servizi ad alto valore aggiunto (non esportabili) come la finanza e l’istruzione che possono essere forniti più facilmente online. I settori non-essenziali sono gli hotel, i ristoranti, le palestre, l’intrattenimento di massa, il turismo, ovvero in generale quei settori che producono beni non commerciabili a basso valore aggiunto. Inizialmente lo shock da Covid colpisce dal lato dell’offerta e comporta la chiusura del settore non-essenziale. I lavoratori protetti sono tali perché sono lavoratori pubblici o perché lavorano in una grande azienda che è in grado di resistere allo shock attraverso i mercati interni di lavoro e capitale, oppure perché il loro settore non è colpito dallo shock. I lavoratori non-protetti, d’altro canto, vedono il loro reddito scendere a zero.

Se i beni essenziali e non-essenziali non sono perfettamente sostituibili tra loro, il consumo dei lavoratori protetti si sposterà solo parzialmente nel settore essenziale (i lavoratori con reddito protetto che risparmiano in ristoranti o palestre non compensano tale risparmio con maggiore spesa nei settori essenziali). In aggregato, ciò causa un aumento del tasso di risparmio o, diversamente, un calo della domanda. Quindi uno shock iniziale dell’offerta si trasforma in un aumento (endogeno) del risparmio, cioè un calo della domanda, amplificando la caduta iniziale della produzione nel settore non-essenziale.

Ci sono altre possibili fonti di asimmetria settoriale. Da un lato, i settori manifatturieri che producono beni durevoli potrebbero trarre vantaggio dalla compressione della domanda nel periodo della pandemia (i consumatori rinviano l’acquisto di televisori e frigoriferi, ma con l’esaurirsi dell’emergenza finiranno per completare i loro acquisti) e presentare quindi una ripresa più rapida. Invece, i settori dei servizi (parrucchieri, alberghi, ristoranti, palestre) non recupereranno mai la precedente domanda inevasa, il che potrebbe portare a fallimenti aziendali e tagli dell’occupazione.

I due scenari

La forte asimmetria settoriale dello shock da Covid implica quindi che una quota significativa della forza lavoro del settore non-essenziale rimarrà inattiva o perderà il lavoro. Le conseguenze macroeconomiche della crisi dipenderanno dalla misura in cui lo shock si riveli temporaneo o (sufficientemente) persistente. Consideriamo i due scenari. Se lo shock fosse meramente temporaneo, gli interventi di policy dovrebbero essere guidati da due principi. Primo, assicurazione: garantire il reddito dei lavoratori dei settori non-essenziali (palestre, ristoranti, alberghi). Secondo, affrontare la carenza temporanea della domanda nel settore non-essenziale.

Ci sono tuttavia ragioni per ritenere che lo shock potrebbe rivelarsi permanente. In primo luogo, anche quando l’economia dovesse rimuovere le restrizioni all’offerta nei settori non-essenziali, la domanda debole potrebbe ancora frenare la ripresa, poiché è probabile che i consumi siano rallentati dalle perdite di lavoro e di reddito passate e in corso. In secondo luogo, la natura speciale dello shock Covid potrebbe portare i consumatori ad allontanarsi in modo permanente da servizi che comportano contatto fisico (crociere, località di villeggiatura, intrattenimento di massa). In terzo luogo, lo shock Covid potrebbe accelerare un processo di digitalizzazione già intrapreso in molte aziende, per rispondere allo spostamento delle preferenze dei consumatori verso consumi e servizi digitali e online. Molti consumatori, ad esempio, potrebbero essersi resi conto che la consegna di merci online è dopotutto “fattibile”, superando una tipica resistenza contro l’e-commerce (l’Italia è un esempio calzante), mentre molte aziende potrebbero trovare finalmente redditizio completare la propria transizione verso processi digitalizzati.

Come rispondere a una trasformazione permanente

Lo shock Covid potrebbe anche generare la domanda di nuove tipologie di lavoratori. Alcuni servizi verranno riattivati solo se sarà garantito il distanziamento fisico. Ciò potrebbe generare la domanda di nuovi tipi di lavoratori, ad esempio “guardie sanitarie” che operano alle fermate dei trasporti pubblici o nei parchi o nei centri commerciali. Oppure, lavoratori che potrebbero consentire l’assistenza degli anziani a casa, consegnando cibo, o fornendo altri servizi di base (banca, spedizione di libri).

Tutte queste forze potrebbero portare a una trasformazione permanente della domanda di lavoro verso la produzione e la fornitura di beni e servizi che possono essere digitalizzati o servizi in cui la manodopera può aiutare a garantire un adeguato allontanamento fisico. La crisi Covid è quindi uno shock da “misallocazione” settoriale del lavoro. Una grave rigidità del mercato del lavoro italiano è proprio quella di non permettere facilmente una riallocazione settoriale del lavoro. Nonostante le riforme del Jobs act il sistema rimane ancora centrato sulla difesa tout-court del posto di lavoro. Questa rigidità strutturale rischia di essere molto costosa nella situazione corrente.

Sono quindi urgenti politiche che favoriscano la riallocazione del lavoro inattivo dai settori non-essenziali (hotel, turismo, commercio) ai settori essenziali. Con diversi benefici attesi: (i) fornire un’assicurazione a breve termine per i lavoratori dei settori non-essenziali; (ii) affrontare la carenza temporanea della domanda nel settore non-essenziale; (iii) favorire in modo strutturale lo spostamento verso i settori essenziali; iv) soddisfare la domanda di nuovi posti di lavoro in settori che richiedono prossimità fisica.

Gli interventi di policy dovrebbero guardare sia al breve che al lungo periodo. Primo, una riforma della cassa integrazione, strumento ideale in presenza di shock esogeni alle imprese (come il Covid), ma che non permette al lavoratore di assumere altri impieghi temporanei. Secondo, una riattivazione dei contratti di lavoro temporanei. La rigidità introdotta con il famoso decreto Dignità rischia di generare costi altissimi fra pochi mesi. Terzo, programmi di formazione e ampliamento delle competenze che favoriscano la riallocazione verso i settori essenziali (e in espansione), un processo fortemente carente in Italia. Non si tratta semplicemente di favorire l’impiego di un portiere di albergo in un supermercato. Ma di immaginare, ad esempio, che tutto il settore del delivery sarà in crescita nel futuro e che aumenterà la domanda di programmatori software per gestire le piattaforme online. E questi programmatori vanno formati.

In Scandinavia il settore pubblico ha favorito, con programmi poderosi, la riqualificazione del personale aereo verso il settore sanitario. In Italia si è cercato di riformare gli uffici di collocamento per 30 anni. Il Recovery Fund deve essere finalmente l’occasione per una riforma radicale delle politiche attive del lavoro, in un’ottica virtuosa di collaborazione pubblico-privato.

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