Tratto da lavoce.info
di Tito Boeri, professore all’Università Bocconi
e Roberto Perotti, ordinario all’Università Bocconi
L’unico modo per migliorare le università italiane è premiare chi fa la ricerca migliore. Ma quota premiale e tre Vqr non hanno reso più selettiva l’assegnazione dei fondi pubblici agli atenei. Dovremmo prendere esempio dal sistema del Regno Unito.
La quota premiale nelle università italiane
Da decenni si dibatte su come migliorare le università italiane. Il punto di partenza (e quasi sempre anche di arrivo) è tipicamente sulla quantità: “bisogna aumentare i finanziamenti”. Mai come ora questo dibattito è attuale, dato che potrebbero essere in arrivo molti soldi del Next Generation EU. Ma come far sì che i finanziamenti migliorino effettivamente la qualità della ricerca? L’insegnamento è difficile da valutare, e non ce ne occuperemo in questo intervento; la ricerca anche, però in misura minore: il meccanismo della “peer review”, il giudizio dei pari, è imperfetto ma è applicato ovunque.
La ricerca è fatta da esseri umani e per migliorarne la qualità in modo non casuale conosciamo un solo modo: premiare chi fa ricerca migliore. Una parte dei finanziamenti statali a un dipartimento o ateneo deve essere basata sulla qualità della ricerca espressa. A sua volta, questo darà ai decisori nel dipartimento e ateneo l’incentivo ad assumere e promuovere chi fa la ricerca migliore, invece che l’amico o il cognato.
Ma è importante partire da un dato di fatto: la ricerca ad alto livello non può essere distribuita uniformemente tra atenei e dipartimenti; non tutti gli atenei possono essere “eccellenti”. E questo per almeno due motivi. Il primo è l’esternalità da aggregazione: due buoni cervelli nello stesso posto si stimolano a vicenda e producono ricerca ancora migliore, lasciati separati a interagire con colleghi mediocri languono. Il secondo sono i costi fissi: soprattutto nelle scienze “dure”, il costo di laboratori e attrezzature all’avanguardia può essere sopportato solo dagli atenei più grandi. Meglio avere un’attrezzatura costosa, ma all’avanguardia in un solo ateneo che un’attrezzatura più a buon mercato distribuita su due atenei.
La conseguenza di tutto questo è duplice: almeno una parte dei finanziamenti all’università deve premiare la ricerca migliore; e questa quota premiale, se assegnata seriamente, sarà necessariamente concentrata.
Nel 2008 fu introdotta la “quota premiale”, che avrebbe dovuto assegnare il 7 per cento delle risorse del Fondo di finanziamento ordinario in base a indicatori di qualità dei diversi atenei, prevedendone il graduale incremento fino al 30 per cento (oggi siamo al 20 per cento).
A sua volta, la quota premiale è divisa in tre componenti. La prima è basata sugli esiti della “Valutazione della qualità della ricerca” (Vqr), essenzialmente un processo centralizzato di “peer review”; la seconda (“Reclutamento”) si basa sullo stesso criterio, ma applicato solo ai nuovi assunti nel triennio precedente. Finora si sono svolte tre Valutazioni della qualità della ricerca volte a offrire basi oggettive per l’assegnazione di questa componente.
La terza componente (“Autonomia responsabile”) è più complicata e ha una connessione molto dubbia con la qualità della ricerca o dell’insegnamento. Ogni ateneo sceglie due tra i tre gruppi di indicatori seguenti: “Qualità dell’ambiente di ricerca”, “Qualità della didattica” e “Strategie di internazionalizzazione”. Ogni gruppo consiste di quattro indicatori; all’interno di ognuno dei due gruppi prescelti, ogni ateneo sceglie un indicatore, per un totale di due indicatori su dodici disponibili. Per esempio, il primo gruppo “Qualità dell’ambiente di ricerca” consiste dei quattro indicatori seguenti: 1. indice di qualità media dei collegi di dottorato (R+X medio di ateneo); 2. proporzione di immatricolati ai corsi di dottorato che si sono laureati in altro ateneo; 3. proporzione di professori assunti nell’anno precedente non già in servizio presso l’ateneo; 4. proporzione di professori assunti nell’anno precedente a seguito di chiamata diretta ai sensi dell’art. 1, comma 9 della legge 230/05, non già in servizio presso l’ateneo.
Infine, c’è una componente introdotta più di recente, i “Dipartimenti di eccellenza”, che è essenzialmente una forma più selettiva della Vqr: premia direttamente i dipartimenti e solo se veramente di eccellenza. Per brevità la considereremo parte della “quota premiale”, anche se strettamente parlando ne è separata. Per mancanza di dati sulla distribuzione tra atenei, non abbiamo incluso: i fondi First (Fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica, circa 45 milioni nel 2018); i fondi Fisr (circa 26 milioni nel 2018) e i fondi del Cnr e Prin.
Le altre fonti di finanziamento degli atenei italiani sono la “quota base”, che schematizzando molto si basa sui costi storici e le dimensioni dell’ateneo; e le rette studentesche. La prima colonna della Tabella 1 mostra l’incidenza di ogni voce nelle entrate totali dei 57 atenei pubblici italiani per cui abbiamo tutti i dati necessari. La seconda colonna mostra l’ammontare medio di ogni voce per docente, in euro.
Abbiamo poi calcolato il valore di ogni voce in ogni ateneo, in rapporto al numero di docenti di quell’ateneo, e ne abbiamo calcolato l’indice di concentrazione di Gini nel campione dei 57 atenei. Ricordiamo che l’indice di Gini di ogni voce di bilancio è 0 se ogni ateneo riceve lo stesso ammontare; è 1 se un solo ateneo riceve tutti i finanziamenti mentre gli altri non ricevono niente. I risultati sono nella colonna 3. L’indice di concentrazione della quota premiale è addirittura inferiore a quelli della quota base e delle rette. Persino l’indice della quota Vqr, che in teoria dovrebbe premiare espressamente la qualità della ricerca, è inferiore a quello delle rette e della quota base. L’unica voce che presenta un indice di concentrazione nettamente superiore a quello delle altre voci è “Dipartimenti di eccellenza”, che infatti premia solo alcuni dipartimenti in alcune università (ma è molto più piccolo delle altre componenti). Si noti che persino la voce “Autonomia”, che è un miscuglio di criteri senza legame con la ricerca, ha una concentrazione superiore alla Vqr. Se si esprimono tutte queste voci in rapporto al numero degli studenti invece che dei docenti, i risultati sono quasi identici.
Il sistema inglese
C’è qualcosa di inevitabile in questi risultati che ci sfugge? Come metro di comparazione abbiamo preso il sistema universitario inglese (per ragioni di disponibilità di dati ci siamo limitati alle università inglesi, escludendo quelle gallesi, scozzesi e nord-irlandesi), che è interamente pubblico, e abbiamo condotto lo stesso esercizio. La lista totale delle università pubbliche inglesi con dati di bilancio include 210 atenei; di queste molte però mancano di informazioni sul numero di studenti o docenti, altre sono atenei con un solo dipartimento (per esempio filmografia o teatro). Abbiamo quindi estratto i 104 atenei che appaiono nel ranking di The Times, concordemente ritenuto autorevole. Da questo abbiamo estratto poi anche il campione delle 57 migliori università secondo questo ranking, per pareggiare la numerosità del campione italiano. Tutti i dati provengono dall’HESA (Higher Education Statistics Agency). La Tabella 2 replica la Tabella 1 su questo campione dei primi 57 atenei inglesi.
Come sempre in questi casi, è difficile ottenere una corrispondenza esatta tra le voci di bilancio degli atenei italiani e quelli inglesi, perché le classificazioni sono differenti. L’equivalente inglese delle rette pagate dagli studenti è la voce “Tuition fees and education contracts” (la sua incidenza nelle entrate totali è molto più alta che in Italia, perché include le rette pagate dagli studenti ma rimborsate dallo stato o pagate con un prestito statale). L’equivalente della “Quota premiale” è “Research”, data dalla somma di due voci: le entrate provenienti dai sette “Research Councils”, per setti gruppi di discipline diversi, che come la Vqr italiana valutano la ricerca con un sistema di “peer review”; e i “research grants” erogati da “Research England”, un organo governativo che assegna fondi in gran parte sulla base della qualità della ricerca. L’incidenza della quota premiale appare più bassa che in Italia, ma ciò è dovuto in parte a un effetto composizione: la terza grande voce di bilancio, “Other income” è una voce residuale in cui sono incluse alcune voci che sono distribuite in base alla ricerca, come grants dei governi e altri enti locali e altro ancora. La corrispondenza più precisa è tra la voce “Vqr” in Italia e la voce “Research” in Inghilterra: entrambe sono basate sulla qualità della ricerca. Le quote nelle entrate totali sono in questo caso simili: 12,2 per cento in Italia e 9,7 per cento in Inghilterra. Una corrispondenza ancora più precisa potrebbe esserci tra la voce “Vqr” in Italia e la voce “Research Councils” in Inghilterra: entrambe sono basate su un meccanismo di peer review delle pubblicazioni. Anche la voce “Research England” in gran parte lo è, ma i criteri esatti sono meno trasparenti.
Le entrate totali per docente sono circa il doppio che in Italia (per la conversione in euro abbiamo usato i tassi di cambio aggiustati per la parità del potere di acquisto). Si tenga presente che il campione inglese comprende le 57 migliori università, mentre il campione italiano comprende quasi tutte le università pubbliche. Si noti però che l’ammontare delle voci “Quota premiale” e “Research” è praticamente identico: circa 24 mila euro.
Il quadro d’insieme in Inghilterra è molto differente da quello italiano. L’indice di Gini per “Research” è tre volte superiore a quello delle rette, e ben superiore a quello di “Other income” (che, come si è visto, include entrate basate sulla ricerca). La differenza con la voce “Research Councils” è ancora più marcata.
Confrontando le stesse voci tra paesi, la concentrazione delle rette è addirittura leggermente più alta in Italia che in Inghilterra; ma la concentrazione di “Research” è cinque volte superiore a quella della Vqr.
Si potrebbe pensare che le differenze nella concentrazione siano dovute alle differenze negli ammontari medi: più basso è l’ammontare medio di una voce, più difficilmente quella voce potrebbe essere concentrata in pochi atenei. Le regole per l’assegnazione delle risorse sono quelle che determinano la concentrazione e sono indipendenti dagli ammontari medi. In ogni caso, “Research” è 4,5 volte più concentrata della “Quota premiale” nonostante gli ammontari medi di “Research” siano praticamente identici a quelli della “Quota premiale”. E all’interno del sistema italiano, “Dipartimenti di eccellenza” ha un ammontare medio contenuto (è un quarto di “Vqr”) ma è quasi cinque volte più concentrato.
La conclusione è molto semplice: la quota premiale e le tre Vqr non hanno contribuito a rendere più selettiva l’allocazione dei fondi pubblici alle università. Al contrario, paradossalmente e inspiegabilmente hanno finito per ridurla. Il passaggio dalla cosiddetta “quota di riequilibrio” alla “quota premiale” è stato solo nominalistico. Così non si stimolano le università a fare meglio, a differenza di quanto avviene nel Regno Unito, un paese con un sistema universitario prevalentemente pubblico, come l’Italia.