Tratto da lavoce.info
di Giacinto della Cananea, Professore ordinario di diritto amministrativo all’Università Bocconi
Il deficit di trasparenza nella gestione della pandemia influisce negativamente sulla fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Lo confermano le pronunce del Tar del Lazio sulle mascherine chirurgiche a scuola e sul piano nazionale di emergenza.
L’obbligo della mascherina per gli alunni sotto i dieci anni
Due recenti pronunce del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio attestano un deficit che influisce negativamente sulla fiducia dei cittadini nelle istituzioni: si tratta del deficit di trasparenza nella gestione della pandemia. La prima è l’ordinanza n. 7468 del 4 dicembre scorso sull’obbligo di utilizzare le mascherine chirurgiche a scuola, l’altra è la sentenza n. 827 del 22 gennaio 2021, sul controverso tema del piano nazionale di emergenza.
L’ordinanza del Tar riguarda l’imposizione dell’uso prolungato della mascherina chirurgica a un alunno di nove anni, malgrado i genitori avessero segnalato che ne derivava un difetto di ossigenazione. Sono in gioco, quindi, il diritto individuale alla salute e l’interesse della collettività.
È qui chiamata in causa la trasparenza che il governo è tenuto ad assicurare nella sua azione. Lo è perché il decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 3 novembre, che ha confermato l’obbligo di utilizzare le mascherine chirurgiche, si basa sulle indicazioni fornite dal Comitato tecnico scientifico. Tali indicazioni servono a impedire che la decisione governativa, in sé discrezionale, scada nell’arbitrio.
Il giudice amministrativo ha constatato che il verbale della riunione del 31 agosto, riguardante la ripresa delle attività scolastiche, non è stato richiamato nelle premesse del Dpcm, né è stata depositata copia dei verbali di altre riunioni rilevanti. Non risultano nemmeno effettuati i necessari approfondimenti sulle conseguenze derivanti dall’uso prolungato della mascherina da parte di alunni da sei a undici anni. Non si comprende, quindi, se la decisione governativa sia ancorata a basi informative e valutazioni tecniche attendibili. Date queste premesse, è ineccepibile la decisione del Tar, che ha ordinato all’amministrazione di esibire entro trenta giorni i verbali rilevanti e una relazione relativa alle evidenze scientifiche.
Il piano nazionale di emergenza
Nell’altro giudizio, due deputati del partito Fratelli d’Italia hanno contestato l’inerzia del ministero della Salute nei confronti dell’istanza di accesso relativa al piano nazionale di emergenza.
La vicenda è complessa: a) i parlamentari hanno chiesto di esibire un documento di cui avevano appreso conoscenza dall’intervista rilasciata da un dirigente del ministero, ma di cui quest’ultimo ha negato l’esistenza, affermando che si tratta “d’uno studio contenente elaborazioni matematiche e dati statistici sui possibili scenari di crisi” risalente al 22 gennaio 2020; b) l’hanno richiesto “nell’esercizio delle prerogative a loro riservate dall’art. 67 Cost.”, cioè come rappresentanti dell’intera nazione; c) la richiesta è stata presentata nell’esercizio del diritto di accesso ai documenti amministrativi, per il quale il nostro ordinamento esige che si faccia riferimento a un interesse specifico, ma è stata poi diversamente qualificata – e giudicata ammissibile – dallo stesso Tar, ossia come accesso civico generalizzato, per il quale non occorre alcuna specifica giustificazione.
Al di là degli aspetti strettamente giuridici, delle due l’una: o il governo italiano non disponeva di un piano o lo aveva e ha scelto di non renderlo pubblico. Nel primo caso, vi è una precisa responsabilità di quanti sono al governo nei confronti della società tutta. Nell’altro caso, l’aver negato l’esistenza del piano, in assenza d’una valida giustificazione, viola una regola fondamentale delle democrazie liberali, secondo la scuola di pensiero di cui Norberto Bobbio è l’esponente più noto. Il Tar ha optato per questa seconda evenienza, accogliendo il ricorso, ordinando l’esibizione del piano entro trenta giorni, condannando il ministero all’integrale pagamento delle spese.
Garanzie giurisdizionali e politiche
Giustizia è fatta, dunque? Non è così semplice, per tre motivi. Anzitutto, queste vicende fanno seguito al giudizio perso dal governo nella scorsa estate, sempre di fronte al Tar del Lazio, per il rifiuto di rendere pubblici i verbali del Cts richiesti dalla Fondazione Einaudi. Confermano che la trasparenza, più volte richiamata nei discorsi ufficiali, è in realtà inattuata. Né vale obiettare che, nel corso d’una pandemia, vi è la necessità di adeguate difese nei confronti dell’emergenza sanitaria, anche al prezzo di restrizioni delle libertà.
Nulla, infatti, giustifica che le restrizioni siano definite con modalità opache, soprattutto per quanto concerne l’imposizione dell’uso delle mascherine nelle scuole. Per l’altra vicenda, il dirigente ministeriale ha dichiarato che vi era un “piano secretato”, non divulgato “per non spaventare la popolazione”. È una giustificazione che, oltre a richiamare gli arcana imperii, richiede un’assunzione di responsabilità in sede politica.
In secondo luogo, i due giudizi non sono conclusi: il governo può proporre appello al Consiglio di Stato, come ha fatto nel caso della Fondazione Einaudi. In quel caso, però, vi ha rinunciato dopo che il Consiglio di stato, pur sospendendo temporaneamente l’efficacia della sentenza del Tar, aveva apertamente sconfessato la sua linea difensiva.
In terzo luogo, nella vicenda del piano nazionale di emergenza, al successo dei ricorrenti dinanzi al giudice amministrativo corrisponde una sconfitta del Parlamento, che non è riuscito ad assicurare le condizioni indispensabili per un dibattito informato, in una società civile che rivendica il proprio diritto di conoscere le ragioni delle scelte governative, per poterle discutere ed eventualmente contestare.