Tratto da lavoce.info
DI MASSIMO BALDIN, professore associato di Scienza delle Finanze presso la Facolta’ di Economia di Modena
Oggi serve una rete di protezione in grado di rispondere ai nuovi rischi sociali e di intervenire in modo rapido e universale all’emergere di crisi. C’è però un pericolo: dividere in due la società tra chi riceve i trasferimenti e chi finanzia il welfare.
Il welfare fa i conti con la pandemia
Quando si pensa al welfare state, è strano parlare di “ritorno dello stato”, perché dal welfare state lo stato non se ne è mai andato, almeno in Italia. Dal 1995 a oggi la spesa per prestazioni sociali è più che raddoppiata e nel 2019 è pari a 2,3 volte quella del 1995 – anche se ha subito un rallentamento tra il 2009 e il 2019. Dopo lo scoppio della pandemia si è poi verificata, ovunque, una vera e propria esplosione della spesa sociale per cercare di limitare i danni della crisi sui bilanci di famiglie e imprese. Sembra che nel mondo siano stati lanciati circa 1.600 nuovi programmi di spesa sociale nel corso del 2020. Una reazione completamente diversa da quella adottata per la crisi del 2008. L’aumento della domanda di welfare ha riguardato sia la quantità di risorse, in beni e servizi, sia la loro destinazione.
Nel forum del Festival dell’Economia dedicato a “Nuove povertà e nuove reti sociali” prendiamo spunto da alcune domande:
1) Come sono cambiate le condizioni delle famiglie a causa del Covid? E come ha risposto il sistema di welfare?
2) Il welfare state attuale è adeguato al mondo post-pandemia o deve cambiare? E in quale direzione?
3) Di fronte ai cambiamenti in corso, come si modifica il rapporto tra welfare pubblico e welfare privato?
Covid, povertà e reazioni di policy
Negli ultimi 15 anni due gravi crisi economiche (2008-2013 e 2020) hanno indebolito la classe media e determinato un forte aumento della diffusione della povertà. Alcuni gruppi sociali hanno sofferto più di altri: i giovani, gli immigrati, i dipendenti del settore privato in genere. Si sono difesi meglio i dipendenti pubblici e i pensionati. Emerge una nuova realtà, dove la povertà non è più collegata a caratteristiche tradizionalmente associate a condizioni di marginalità (vivere in determinate aree, bassa istruzione, problemi di salute, molti figli), ma si estende a gruppi sociali molto più ampi, toccati anche da fenomeni come la globalizzazione o il cambiamento tecnologico.
Le difficoltà economiche indotte dal Covid e dai lockdown sembrano aver danneggiato gli stessi gruppi sociali già colpiti in modo particolare dalla crisi iniziata nel 2008. La spesa sociale aveva già cominciato a reagire a questa crisi di lungo periodo, introducendo nuovi strumenti come il reddito di cittadinanza o progettando riforme di schemi esistenti (come il prossimo assegno unico ai figli, che sostituirà assegno al nucleo familiare, detrazioni per figli e altri sussidi minori). Nell’ultimo anno i cambiamenti sono accelerati, con trasferimenti diretti una tantum di denaro per sostenere i redditi dei lavoratori e delle imprese, comuni a tutti i paesi, o con misure di emergenza come il congedo straordinario per genitori o il bonus per il baby-sitting, uno tra i tanti nuovi bonus (sono tantissimi: vacanze, affitto, casa, bebè, nido, nascita, genitori separati, bici, tv, occhiali e così via, alcuni nuovi, altri rinnovati). La spesa per la cassa integrazione è esplosa, con gravi ritardi burocratici e difficoltà a raggiungere tutti i nuovi aventi diritto.
Si sarebbe potuto fare meglio? Cosa ci insegna l’ultimo anno e mezzo sui difetti della rete di welfare? L’introduzione del Rem (reddito di emergenza), ad esempio, ci dice che il reddito di cittadinanza ha problemi anche nella parte relativa al trasferimento monetario, non solo in quella di attivazione. La crisi da pandemia ha anche stimolato reazioni da parte di enti del terzo settore e di istituzioni religiose per aiutare le famiglie in difficoltà. È importante fare un bilancio delle risposte che ha dato il welfare “privato”.
Come deve cambiare il welfare state?
Le misure di spesa sociale del 2020-2021 sono in gran parte straordinarie, ma qualcosa abbiamo imparato e qualche innovazione è destinata a rimanere. È diventato chiaro che abbiamo bisogno di una rete di protezione in grado di intervenire in modo rapido e universale al verificarsi di crisi che possono cambiare il destino personale dalla sera alla mattina: non solo epidemie, ma anche disastri naturali (in Italia abbiamo avuto diversi terremoti negli ultimi anni), crisi politiche internazionali, chiusure o spostamenti di grandi aziende. Gli ammortizzatori sociali, già interessati da almeno due riforme negli ultimi dieci anni, devono avere una maggiore copertura. Sicuramente la tecnologia avrà un ruolo crescente per accelerare le risposte e per organizzare l’offerta.
Ci sono poi nuovi rischi sociali, che diventa sempre più urgente affrontare: non autosufficienza, precarietà lavorativa e bassi salari, disagio dovuto alla solitudine, problemi di salute mentale, effetti dell’inquinamento, problemi degli immigrati. Alcuni sostengono che per far fronte alla nuova realtà sia necessario un basic income universale e incondizionato, ma i vincoli di bilancio sono più stringenti di due anni fa.
C’è bisogno di investire di più nella capacità delle persone di resistere alle crisi improvvise, quindi nel capitale umano, soprattutto attraverso servizi, ma anche trasferimenti alle famiglie con minori.
L’aumento della povertà ha accentuato una delle caratteristiche storiche del nostro sistema di welfare, cioè la prevalenza della spesa in denaro su quella in servizi. E ha anche spinto a una maggiore selettività della spesa, per concentrarla su chi ha più bisogno. Più universalismo, ma sempre più selettivo. La tendenza sembra proseguire. Anche la recente proposta di Enrico Letta di dare una dote ai diciottenni si rivolge alla metà con Isee più basso. E pure il nuovo assegno unico ai figli non sarà uguale per tutti. C’è il rischio di dividere la società in due: chi riceve i trasferimenti e chi con le imposte finanzia il welfare, ma ne è escluso oppure può accedere ad alcuni servizi solo pagando una seconda volta. Può reggere un welfare state che non è più universale nelle sue prestazioni, oppure i benestanti si ribelleranno e chiederanno meno imposte? Si rischia il circolo vizioso: più aumenta l’area del disagio, più il sistema diventa selettivo ed esclude i redditi medio-alti, che possono rivolgersi altrove per la loro domanda di welfare.
Quale relazione tra welfare pubblico e welfare privato?
La salute e le prospettive del welfare state pubblico sono molto diverse nei vari paesi. Negli Usa la nuova amministrazione amplia in modo impressionante la spesa pubblica destinata al sociale, con il chiaro intento di avvicinare il welfare state americano a schemi tipici della tradizione europea. Negli altri paesi europei in genere la spesa sociale è esplosa, per lo più seguendo strade comuni (sussidi straordinari, cassa integrazione), ma anche le tradizioni nazionali.
In Italia il welfare state pubblico affronta grandi difficoltà. L’invecchiamento della popolazione produrrà nuove tensioni sulla spesa per pensioni e sanità e l’elettorato sempre più anziano spingerà in questa direzione. Il periodo di sostanziale assenza di vincoli di bilancio finirà (le regole del patto di stabilità dovrebbero tornare nel 2023) e diventerà difficile finanziare schemi contro i nuovi rischi sociali. Anche il debito pubblico molto elevato è un ostacolo importante. Ma non c’è solo un problema di bilancio. Non è detto che il settore pubblico debba occuparsi di tutti i rischi sociali, o che debba essere centrale sia nel finanziamento che nella produzione diretta dei servizi. Già oggi, in diversi settori, le principali funzioni del pubblico sono la regolazione e il finanziamento.
In questo contesto, quali sono gli spazi per il welfare privato, cioè per tutte quelle istituzioni non pubbliche che affrontano rischi sociali o dal lato della produzione di servizi o anche da quello del finanziamento? E quale deve essere la relazione tra welfare privato e welfare pubblico? Competizione, sussidiarietà, collaborazione, divisione dei ruoli? C’è il rischio che l’espansione del welfare privato riduca la disponibilità dei beneficiari a finanziare quello pubblico, e che quindi quest’ultimo, se solo per i poveri, finisca per avere una qualità sempre più bassa? Oppure è possibile una collaborazione che aumenti la copertura dei rischi e ampli la gamma e la qualità delle prestazioni del sistema di welfare pubblico-privato? Si sta andando verso un nuovo rapporto tra le due dimensioni? In quali settori in particolare? E come ampliare l’accesso al welfare privato dalle aziende e città medio-grandi a tutti i lavoratori e alle realtà più periferiche?
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