Tratto da lavocve.info
di Tommaso Monacelli, professore ordinario di Economia all’Università Bocconi di Milano, e Fellow di IGIER Bocconi e del CEPR di Londra
Negli Usa politica fiscale e monetaria sono allineate per favorire una ripresa inflazionistica e stimolare investimenti e consumi. Ma a lungo termine ciò significa tassi di interesse più alti in tutto il mondo. E la Bce dovrà affrontare un dilemma.
Il legame deficit-inflazione
Con l’approvazione del gigantesco piano di stimolo fiscale negli Stati Uniti (pari a circa il 9 per cento del Pil) il dibattito economico torna a focalizzarsi sul rischio di una rapida crescita dell’inflazione e di un rialzo dei tassi di interesse mondiali. Le aspettative di inflazione negli Usa hanno già raggiunto il livello più alto degli ultimi dieci anni.
Esiste un legame tra (maggior) deficit fiscale e inflazione? L’evidenza empirica su questo punto è in realtà molto debole. Il Giappone, ad esempio, è considerato un caso scuola: anni di incremento sostanziale del deficit, ma effetti apparentemente nulli sull’ inflazione. Come si conciliano dunque i timori sulla ripresa inflazionistica americana con quanto accade da più di venti anni in Giappone?
Uno dei motivi per cui, in generale, il legame tra deficit e inflazione è incerto è che dipende in modo decisivo dalle aspettative sul comportamento futuro della politica economica stessa. Il ruolo delle aspettative, seppur cruciale, è quasi sempre ignorato nel dibattito su inflazione e politiche monetarie-fiscali.
Maggior deficit oggi può generare maggiore o minore inflazione oggi, a seconda di che cosa gli agenti economici (imprese e famiglie) si aspettano riguardo alla politica monetaria-fiscale futura. Ad esempio: di fronte a maggior deficit fiscale oggi, gli agenti potrebbero aspettarsi che il governo-banca centrale non abbia altra scelta in futuro che stampare moneta per finanziarlo (invece di aumentare le tasse). In tal caso, maggior deficit oggi si associa a maggiore inflazione oggi, perché gli agenti si aspettano maggiore espansione monetaria in futuro (l’inflazione è una variabile che dipende fortemente dalle aspettative). Questo è il quadro tipico in un contesto in cui la banca centrale non è indipendente dal potere politico.
In alternativa, di fronte a maggior deficit oggi, gli agenti possono invece aspettarsi che il governo farà ricorso a una maggiore tassazione futura per finanziarlo. Quindi maggior deficit oggi è associato a minore inflazione oggi, perché gli agenti si aspettano una contrazione economica in futuro dovuta alle più alte tasse.
Un possibile motivo per cui la (presunta) monetizzazione del deficit in Giappone non è associata a una espansione dell’inflazione è che gli agenti si aspettano prima o poi un forte aumento delle tasse future (per finanziare il deficit crescente). Lo spazio per un incremento della pressione fiscale in Giappone è ancora molto ampio, a differenza, ad esempio, dell’Italia. Questo rende il debito giapponese sostenibile, almeno per ora. Ma le aspettative di maggiore tassazione futura frenano domanda e consumi. Infatti, l’economia giapponese da due decenni non si risveglia.
Il nuovo regime della Fed
Negli Usa sia la politica fiscale che monetaria sono allineate per favorire una ripresa inflazionistica. Da un lato, lo stimolo fiscale dell’amministrazione Biden. Dall’altro, il nuovo regime di politica monetaria della Fed, cosiddetto di “average inflation targeting”. Con questo regime la Fed si impegna oggi a tollerare deviazioni future dell’inflazione al di sopra del target del 2 per cento, senza rialzare i tassi di interesse per evitarlo. L’obiettivo è proprio quello di stimolare oggi al rialzo le aspettative di inflazione (e quindi, a sua volta, l’inflazione corrente), compensando i periodi passati di inflazione considerata troppo bassa.
La figura 1 illustra il confronto tra due sentieri di rientro dal basso dell’inflazione al target del 2 per cento sotto due regimi diversi di politica monetaria: il regime di inflation targeting“tradizionale” e il nuovo regime di “average inflation targeting”.
Figura 1– Convergenza al target di inflazione del 2 per cento (linea orizzontale) lungo due diversi sentieri a seconda del regime di politica monetaria: (i) inflation targetingtradizionale e (ii) average inflation targeting
Nel caso di inflation targeting tradizionale, se l’inflazione si trova al di sotto del 2 per cento, viene guidata dalla banca centrale verso il target dal basso. Nel caso di average inflation targeting, invece, la banca centrale si impegna oggi a tollerare che l’inflazione futura ecceda l’obiettivo del 2 per cento per un certo periodo di tempo, riportandola in linea solo successivamente. Questo approccio, se credibile, serve a orientare al rialzo già oggi le aspettative inflazionistiche degli agenti.
Diversamente dai decenni scorsi, stimolare l’inflazione è considerata di per sé una politica espansiva, dato che le economie avanzate si trovano da anni al limite zero sui tassi di interesse nominali. Un aumento dell’inflazione (corrente e attesa) comprime i tassi di interesse reali,stimolando investimenti e consumi.
Ma la ripresa inflazionistica negli Usa, indotta dalla cooperazione espansiva tra politica fiscale e monetaria, vorrà senza dubbio dire, prima o poi, maggiori tassi di interesse mondiali. Un aspetto debole del nuovo regime monetario della Fed è l’incertezza su quanto a lungo la banca centrale Usa sarà disposta a tollerare deviazioni dell’inflazione in eccesso rispetto al target (si veda la linea tratteggiata nella figura 1). Ad un certo punto, la Fed non potrà evitare di spingere sul pedale del freno alzando i tassi di interesse per contenere un eccessivo rialzo dell’inflazione. Le aspettative degli agenti stanno già incorporando questo scenario: i tassi di interesse a lungo termine sui titoli di stato americani stanno crescendo costantemente da diversi mesi a questa parte (figura 2).
Gli anni recenti hanno convinto le banche centrali che combattere la deflazione è un mestiere molto più complesso del suo opposto, combattere l’inflazione. Un mondo capovolto rispetto agli anni Settanta. Nel primo caso il limite zero sui tassi di interesse pone un serio vincolo sulla capacità di azione della banca centrale, mentre nel secondo non esistono in teoria limiti al rialzo dei tassi per combattere l’inflazione (esistono ovviamente costi recessivi sull’economia reale).
I tassi di interesse a lungo termine sui titoli di stato americani sono un indicatore base dell’andamento di quelli mondiali. Ad un certo punto la pressione al rialzo dei tassi si eserciterà sulla Banca centrale europea, che si troverà di fronte a un dilemma diverso da quello fronteggiato dalla Fed: la crescita monstre del debito pubblico nei paesi del Sud dell’Eurozona (a cominciare dall’Italia), legata agli effetti della pandemia. Rialzare i tassi di interesse anche di pochi punti comporterà una forte pressione sul costo di finanziamento del debito per questi paesi. Il controllo della curva dei rendimenti sui titoli di stato, con un uso sapiente dei programmi di acquisto dei titoli (Qe e Pepp) diventerà perciò il nuovo campo di sfida per la Bce. Un campo, però, pericolosamente minato.