Tratto da lavoce.info
DI MASSIMO ANTICHI, è stato componente della segreteria tecnica della Commissione tecnica sulla spesa pubblica del ministero del Tesoro.
Termina il triennio di sperimentazione di “Quota 100”, ma resta comunque l’esigenza di reintrodurre una certa flessibilità nell’età di pensionamento. La via di uscita non consiste però nell’affidarsi al solo sistema contributivo.
La fine di Quota 100
Una delle questioni che il governo Draghi deve tentare di risolvere è la fine del triennio di sperimentazione della cosiddetta “Quota 100”. Trovare il bandolo della matassa è complicato: così come è nata, la misura rischia di cessare ancora in tandem con il reddito di cittadinanza, in una competizione contrapposta, per ragioni elettorali, alla ricerca delle necessarie fonti di finanziamento. Il mancato rinnovo del provvedimento è raccontato dai suoi sostenitori – i sindacati e sostanzialmente un solo partito politico – come un insopportabile ritorno alla odiata “legge Fornero”.
Ma i numeri forniti dall’Inps nel suo XXI rapporto annuale non sostengono la tesi di questo presunto dramma sociale. Anzi, dimostrano esattamente il contrario: nel 2020, i 73.396 aderenti a quota 100 rappresentano solo il 22 per cento degli aventi diritto. La percentuale potrebbe apparire non irrilevante, seppur inferiore alle stime del governo di allora, se non fosse che chi ha aderito a “Quota 100” rappresenta un irrilevante 5,2 per cento del totale dei lavoratori con un’età tra i 62 e i 67 anni (circa 1.300.000 soggetti).
Sulla iniquità distributiva dell’istituto introdotto dal governo giallo-verde, ancorché i costi effettivi siano stati nel triennio inferiori di circa due terzi rispetto a quelli preventivati, credo sia inutile spendere altre parole rispetto a quelle già utilizzate da Sandro Gronchi e da Carlo Mazzaferro.
Come si spiega allora la strenua battaglia su un beneficio che premia solo pochi “fortunati” lavoratori che possono vantare, a 62 anni di età, un’anzianità contributiva di almeno 38? Tra l’altro, i lavoratori non si sono dimostrati per niente attratti dall’ipotesi di anticipare il pensionamento che, a causa della perdita di contribuzione per gli anni di anticipo, implica una riduzione permanente dell’assegno tra il 10 e il 15 per cento. È un valore che, per un livello per niente generoso dei salari di operai e impiegati, fa una differenza determinante nel mantenere un reddito capace di consentire un livello di vita dignitoso.
Si spiega con il fatto che “Quota 100” viene utilizzata in realtà come cavallo di Troia per tentare di ottenere una attenuazione di requisiti di accesso alla pensione, diventati pesantissimi a causa del loro collegamento automatico alla dinamica della speranza di vita sono. Tanto pesanti che il loro aumento è stato bloccato fino al 2025. Tuttavia, non si può negare che l’esigenza di reintrodurre un range di età flessibile di pensionamento, come originariamente previsto dalla legge Dini, sia fortemente sentita.
Aleggia però l’illusione che la reintroduzione della flessibilità in uscita con il metodo di calcolo contributivo garantisca l’invarianza della spesa intertemporale e che, quindi, sia a costo zero per il sistema economico. Spiace dover contraddire questa fallace illusione, ma non è sempre vero.
Un esempio per spiegare il problema
Proviamo a fare un esempio molto semplice (per chi volesse approfondire consiglio la lettura di Hviding, Ketil and M. Mérette (1998), Macroeconomic Effects of Pension Reforms in The Context of Ageing Populations: Overlapping Generations Model Simulations for Seven OECD Countries
Supponiamo che la nostra ipotetica società sia composta da 100 unità divise in decili ognuno di 10 unità tutte con la stessa età. Il primo di età zero: sono i neonati. Il secondo di 10 anni di età e così via. Supponiamo che i soggetti in età scolare siano i primi due. Quelli in età lavorativa dal 3 al 7. Quindi si lavora dai 20 fino ai 70 anni. E che, infine, i pensionati siano gli ultimi tre. Naturalmente, in questa società non mancano i rappresentanti dei lavoratori che lamentano come sia penoso obbligare le persone a lavorare fino a 70 anni. I sindacati adducono ragioni del tutto ragionevoli per ridurre l’età pensionabile: sicurezza sul lavoro, ricambio generazionale, equità sociale, giusto equilibrio tra tempi di lavoro e non lavoro rispetto alla speranza di vita (100 anni). Tutte ragioni sacrosante.
Idea: anticipiamo il pensionamento di 10 anni impiegando il metodo contributivo; in fondo il calcolo garantisce l’invarianza della spesa pensionistica. All’anticipo corrisponderà un’adeguata riduzione dell’importo spettante. Intanto, è già facile capire come non sia subito così. Alla spesa degli ultimi tre decili se ne aggiunge un quarto. Dovranno decorrere tre periodi affinché l’iniziale aumento di spesa si annulli e si ritorni sul livello precedente. Ma c’è un altro costo che il sistema deve sostenere e che è del tutto trascurato nel dibattito. Le coorti di popolazione in età di lavoro si riducono da 5 a 4. Prima erano 50 i lavoratori a sopportare gli oneri della popolazione non attiva: i 20 giovani e i 30 pensionati. Adesso la popolazione in età di lavoro si è ridotta a 40 e dovrà sostenere lo sforzo produttivo e gli oneri dello stato sociale delle 60 unità di popolazione che ora rientrano nella coorte non attiva. Dopo tre periodi, se la spesa pensionistica sarà tornata sui livelli di prima, il suo onere sarà comunque sostenuto da un numero inferiore di lavoratori.
Qualcuno obietterà: ma qui si trascura la produttività del lavoro. Se la produttività per unità di lavoro sarà rimasta costante, la spesa pensionistica finale non varierà, tornerà sui livelli di prima, ma l’onere sarà ripartito su un numero di lavoratori ridotto e il Pil del nostro ipotetico paese si sarà diminuito del 20 per cento. Se, invece, la produttività del lavoro dovesse aumentare fino a compensare la riduzione di lavoratori, finita la transizione, la spesa sarà addirittura superiore a quella di prima con un Pil rimasto invariato.
Altra possibile obiezione: in Italia abbiamo, in questo momento, un consistente esercito industriale di riserva costituito da un elevato livello di disoccupazione e da una inaccettabile bassa partecipazione al lavoro delle donne. Anche in questo caso è il Rapporto Inps a darci una provvisoria risposta: l’evidenza empirica non dimostra che con le fuoriuscite dal lavoro per “Quota 100” ci sia stato un ricorso a nuove assunzioni di giovani disoccupati o di donne scoraggiate. Una ulteriore conferma che “uno non vale uno” e che per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro serve qualcosa di più del fabbisogno di manodopera, ad esempio: formazione e riqualificazione professionale, contrasto alle disuguaglianze salariali di genere e introduzione di un salario minimo. Temi sui quali c’è ancora molta strada da fare.
Si potrebbe obiettare ancora che qui si ipotizza che anticipino tutti. Nella realtà, con il contributivo, rispetto a un’età pensionabile rigida, qualcuno anticipa e qualcuno posticipa e il numero dei lavoratori rimane lo stesso. Sì, se gli incentivi e i disincentivi sono previsti correttamente. Paradossalmente, se i correttivi attuariali sono equi, cioè calcolati in modo neutrale, l’incentivo a posticipare non ci sarà perché nessun essere razionale posporrà il pensionamento. La spinta ad anticipare sarà necessariamente più forte di quella di coloro che vorranno rimanere al lavoro per ragioni extra economiche o perché non hanno prospettive di lavoro successive al pensionamento.
La via di uscita per trovare una soluzione
Oggi l’età effettiva di pensionamento è arrivata a 64 anni di età. Se il baricentro di flessibilità, contenuto nel suo intervallo per le ragioni spiegate da Sandro Gronchi, sarà incentrato su questa età anagrafica e gli incentivi a posticipare saranno correttamente previsti, allora la riduzione del numero dei lavoratori sarà contenuto, se non nullo.
Di più non ci possiamo permettere, in un paese che ha un numero di lavoratori in rapporto alla popolazione tra i più bassi a livello europeo. In Italia il numero dei lavoratori occupati in rapporto alla popolazione è pari al 37,3 per cento contro il 54 per cento della Germania. E se ci si limita al genere femminile il rapporto scende al 31,3 per cento. Una società signorile di massa come amaramente l’ha definita il sociologo Luca Ricolfi.
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