DI VINCENZO GALASSO, professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi di Milano,
Quota 102 è un provvedimento sbagliato, così come Quota 100. La questione della flessibilità in uscita dal mercato del lavoro andrebbe risolta attraverso il calcolo contributivo, per equità e chiarezza intergenerazionale. C’è comunque un costo da pagare.
Un provvedimento che costa poco
La politica è l’arte del compromesso. E Quota 102 è la prova che un compromesso che costa poco può essere comunque un cattivo compromesso. Non certo per le ragioni addotte dai sindacati.
Il governo ha ben chiaro che Quota 100 sia stata un errore. Non ha aumentato l’occupazione giovanile, come ammesso anche dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, nella sua relazione annuale. Ha consentito invece a oltre 250mila persone – per la maggior parte uomini, nel settore pubblico e con pensioni medio-alte – di lasciare il lavoro a condizioni favorevoli, a costo della collettività.
Quota 102 ne rappresenta una versione light. Permette di andare in pensione a 64 anni – anziché a 62 – e con 38 anni di contributi. Costa poco, perché Quota 100 ha già largamente svuotato la platea dei possibili percettori. Per esempio, un lavoratore che rimane fuori da Quota 100 perché compie 62 anni a gennaio 2022, pur avendo i 38 anni o più di contributi, dovrà comunque aspettare fino al 2024 per accedere a Quota 102. Chi fra coloro che non potevano uscire con Quota 100 accederebbe nel 2022 a Quota 102? I lavoratori con 64 anni o più che non avevano ancora i 38 anni di contributi, ma che li raggiungeranno nel 2022. Una platea molto ridotta. Da qui il costo contenuto di Quota 102, ma anche l’irritazione dei sindacati e della Lega.
Malgrado sia a buon mercato, Quota 102 – già ventilata durante il secondo governo Conte – rappresenta comunque un errore, un passo nella direzione sbagliata. Perché dà un’ulteriore picconata alla nozione di calcolo contributivo introdotto dalla riforma del 1995 per assicurare la sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale. Solo per consentire a pochi fortunati di pre-pensionarsi. E finendo per non accontentare nessuno. Andrebbe ascritta a quegli sprechi, di cui parlava Mario Draghi nel suo primo discorso al Senato, che rappresentano un torto alle prossime generazioni, “una sottrazione dei loro diritti.”
Come risolvere la questione
Meglio sarebbe risolvere definitivamente il problema della flessibilità in uscita dal mercato del lavoro servendosi proprio del calcolo contributivo, anziché dribblarlo.
Due importanti motivi rendono questa soluzione l’unica scelta giusta. Il primo è l’equità intergenerazionale. Con il passaggio completo al contributivo per chi vuole accedere alla pensione anticipata, i lavoratori otterrebbero sui loro contributi previdenziali esattamente il rendimento che un sistema pensionistico a ripartizione può dare loro, ovvero il tasso di crescita del Pil. Inoltre, i lavoratori potrebbero scegliere come percepire la ricchezza previdenziale a cui hanno diritto, dopo aver raggiunto un ammontare minimo di contributi versati, decidendo quando smettere di lavorare tra un’età minima e (possibilmente) un’età massima di pensionamento. In tal modo, potrebbero avere una pensione minore per più anni, nel caso di un pensionamento anticipato, oppure una pensione più elevata ma per meno anni, nel caso di pensionamento posticipato.
Il secondo motivo è la “chiarezza” intergenerazionale. Troppi lavoratori prossimi all’età di pensionamento sono convinti di aver diritto a una pensione ben più elevata di quella a cui i contributi versati possono dar luogo. Il convincimento deriva dalla comparazione con le generose pensioni del passato. Perseverare, anche solo per poco, con i sistemi di “Quote” accresce la percezione dell’ingiustizia intergenerazionale. Al contrario, abbiamo bisogno di maggior chiarezza e di educazione finanziaria sui temi previdenziali. Abbiamo bisogno almeno di una busta arancione con il calcolo contributivo che mostri ai lavoratori a cosa hanno diritto.
Ovviamente, l’uscita dal mercato del lavoro con il metodo contributivo non è indolore. Costa. Allo stato, che dovrebbe mettere immediatamente in bilancio le risorse necessarie a far fronte a tutte le pensioni in più che si genererebbero in virtù dei pre-pensionamenti. L’Inps si troverebbe a finanziare un flusso addizionale di pensioni, che sarebbero però più basse di quelle erogate in caso di normale uscita dei lavoratori con la pensione anticipata (con 42 anni – 41 per le donne – e 10 mesi di contributi) o con la pensione di vecchiaia a 67 anni. Su un orizzonte temporale ampio, di venti-trenta anni, il costo di pagare pensioni più basse per un maggior numero di anni è equivalente al costo di pagare per meno anni pensioni più elevate. È la logica del sistema contributivo, che richiede un bilancio intertemporale, di più anni, per essere analizzata. Nel lungo periodo, i pre-pensionamenti con il contributivo si ripagano da soli. Non lasciano debiti, diversamente da Quota 100 o Quota 102. Spiegarlo a Bruxelles non sarebbe difficile.
Ma costa anche ai lavoratori. Andare in pensione prima con un sistema contributivo implica penalizzazioni. Proprio perché il totale della ricchezza pensionistica corrisposta al lavoratore nell’arco della sua vita deve essere la stessa, chi esce prima dal mercato del lavoro prende meno di chi esce dopo. Ovviamente i lavoratori sono poco disposti ad accettare questi tagli. Lo si è già visto con l’Ape volontaria e anche con Quota 100, che prevedeva penalizzazioni sulla parte contributiva della pensione. Cosa fare? Giusto che i “tagli” dell’assegno esistano. Sono dettati dall’equità intergenerazionale implicita nel sistema contributivo. Si potrebbe tuttavia prevedere un ruolo per le imprese nel ridurre il costo del pre-pensionamento dei lavoratori. Nell’ambito della contrattazione aziendale, le imprese potrebbero decidere di compensare, in parte o in tutto, le penalità previste per i pre-pensionamenti versando al lavoratore in uscita una somma, defiscalizzata, commisurata alla decurtazione applicata alle pensioni.
Fare la cosa giusta sulle pensioni è il primo passo verso un necessario miglioramento della sostenibilità intergenerazionale. Soprattutto in Italia.
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