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Home Economia

Economia. Quale università per quale paese

Redazione di Redazione
11 Novembre 2021
in Economia
Tempo di lettura : 6 minuti necessari
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Vignetta di Cecco

Vignetta di Cecco

Vignetta di Cecco

 

Tratto da lavoce.info

DI GIACOMO PIGNATARO, Professore ordinario di Scienza delle finanze nell’Università di Catania, e insegna Economics and Performance of the Healthcare Sector presso il Politecnico di Milano
E GAETANO VECCHIONE, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Napoli Federico II

Nel nostro paese, il dibattitto sul ruolo dell’università è diviso tra chi propone un modello a “eccellenza” e chi un modello a “università diffusa”. Il Pnrr è l’occasione per chiederci quale tipo di configurazione dare al sistema nei prossimi anni.

Il dibattito sull’università

Negli ultimi mesi, ha suscitato un acceso dibattito un articolo pubblicato su lavoce.info che segnalava come le risorse addizionali destinate agli atenei più performanti sul piano dei risultati della ricerca fossero di fatto distribuite “a pioggia” senza alcuna effettiva premialità. Grande attenzione ha suscitato anche un recente intervento di tre studentesse della Normale di Pisa che, durante la cerimonia di consegna dei diplomi, hanno criticato aspramente quella che definiscono la “retorica dell’eccellenza”, che avrebbe ampliato le disuguaglianze educative in Italia.

I due interventi, molto diversi nell’impostazione di fondo, sollevano alcune domande: che tipo di sistema universitario vogliamo disegnare per il nostro paese? Meglio uno che premi solo le cosiddette “eccellenze” oppure un sistema a università “diffusa”?

Il divario tra “centro” e “periferia”

Esperienze e studi internazionali dimostrano che una presenza diffusa di istituzioni universitarie è rilevante, sia per incrementare l’accesso all’istruzione terziaria, sia per favorire i processi di sviluppo territoriale. Così, negli Stati Uniti, ad esempio, aree geografiche che non accolgono istituzioni di formazione terziaria sono indicate come “deserti educativi”, che non offrono valide opportunità formative ai giovani di quei territori.

Cosa sta succedendo in Italia? Un recente studio Svimez segnala che gli atenei dei territori periferici, a tutte le latitudini geografiche del paese, hanno riscontrato negli ultimi anni crescenti difficoltà in termini di immatricolazioni, reclutamento e capacità di intercettare fonti di finanziamento ordinarie e straordinarie. Le difficoltà sono state amplificate dal cronico sottofinanziamento del sistema universitario italiano e dalla dinamica centro-periferia che ci restituisce un “centro” sempre più in grado di attrarre capitale fisico e capitale umano di qualità e una “periferia” in ritardo a causa dei divari infrastrutturali, dei gap territoriali di ricchezza e occupazione, della stagnazione demografica.

Ad esempio, tra il 2010 e il 2020 (dati Anagrafe studenti, ministero Università e ricerca), le immatricolazioni relative alle lauree triennali sono aumentate del 12 per cento per gli atenei del “centro” e di solo il 3 per cento per quelli della “periferia”.

La distinzione tra atenei del “centro” e di “periferia” è una classificazione nata nell’ambito del Gruppo di lavoro “Università e Disuguaglianza”, costituita dal ministero dell’Università e coordinato da Fabrizio Barca e Fulvio Esposito. Se nell’accezione di “periferia” si includono anche variabili di carattere socioeconomico e non solo quelle squisitamente geografiche, i tassi di crescita si attestano al 16 per cento per gli atenei del “centro” e al 2 per cento per quelli della “periferia” (figura 1), con una differenza che passa da circa 20 mila studenti nel 2010 a 40 mila nel 2020). Importante sottolineare che si tratta di variazioni relative alle immatricolazioni triennali, ci si aspetta un divario più marcato nel caso delle iscrizioni alle lauree magistrali.

Oltre che dai problemi strutturali appena richiamati, le università della “periferia” vengono penalizzate da alcune regole di governo del sistema, in particolare da quelle relative al finanziamento e al reclutamento.

Istituito nel 1993 per finanziare “le spese per il funzionamento e le attività istituzionali delle università, ivi comprese le spese per il personale docente, ricercatore e non docente, per l’ordinaria manutenzione delle strutture universitarie e per la ricerca scientifica” (art. 5, comma 1, lett. a) della legge 537/1993), oggi il Fondo di finanziamento ordinario ricomprende anche una quota per la cosiddetta premialità. Quest’ultima fu introdotta con un provvedimento legislativo alla fine del 2008, all’inizio, dunque, del periodo di riduzione importante e significativa dei finanziamenti statali dell’università. In tale contesto, la quota premiale ha determinato un progressivo deflusso di risorse dalle università con peggiori risultati in termini di ricerca (Vqr) verso quelle con le migliori performance, pregiudicando, tuttavia, proprio il finanziamento per le attività istituzionali, che hanno natura di costi fissi, perlomeno in corrispondenza di determinati livelli di servizi (numero di corsi di studio, rapporto professori/studenti, servizi per gli studenti, e così via). Né si può sostenere che la premialità serva a “punire” le inefficienze, in quanto la quasi contemporanea introduzione del principio dei costi standard garantisce che il finanziamento delle attività istituzionali, in corrispondenza di una data utenza studentesca, possa avvenire in condizioni di efficienza.

Per quanto riguarda il reclutamento, gli effetti distorsivi degli attuali criteri sono ancora più marcati. È vincolato a un decreto del ministero che ogni anno stabilisce i limiti assunzionali dei singoli atenei, parametrandoli sulla base dei cosiddetti “punti organico”. Il meccanismo di determinazione dei limiti è fondato, almeno in parte, su criteri (come il rapporto spese fisse/entrate) indirettamente ricollegabili, per la parte relativa alle entrate, a elementi che caratterizzano lo squilibrio centro-periferia, quali il numero di immatricolati e il reddito medio delle famiglie. Per il 2020, il sistema ha premiato maggiormente gli atenei del “centro” a discapito di quelli della “periferia”. Infatti, per ogni professore ordinario andato in pensione, il Politecnico di Milano ha potuto assumere fino a 2,45 ordinari, Torino 1,4, Bologna 1,39, Milano Statale 1,15, Napoli Federico II 0,97, mentre Genova 0,71, Pisa 0,64, Bari 0,81, Messina 0,68, Catania 0,59 e Palermo 0,714. Come ha sostenuto Gianfranco Viesti, si tratta di una discussione “difficile ma indispensabile”.

Questo sistema finisce, peraltro, per risultare poco coerente con i criteri di premialità prima richiamati, in particolare quelli relativi alla qualità della ricerca. È interessante confrontare il reclutamento di giovani ricercatori, che dovrebbe costituire uno dei fattori fondamentali per la qualità del sistema universitario, e le performance della qualità della ricerca. L’osservazione del numero di giovani ricercatori reclutati è significativa anche per il fatto che esso, in questi anni, è stato perlopiù ricollegato a finanziamenti statali straordinari. La tabella 1 riporta: i) il numero di Rtd(b) reclutati nel periodo 2015-2019 (dati Mur regionalizzati); ii) il numero di Rtd(b) reclutati ogni 10 mila abitanti; iii) un indicatore relativo alla qualità della ricerca (indicatore Iras1) calcolato dall’Anvur su sedici Aree, pesati con i pesi di Area e regionalizzato (per regionalizzare il dato si è applicata una media ponderata considerando il numero di iscritti delle triennali per anno) in relazione ai risultati Vqr 2004-2014. Come si evince, l’Italia ha reclutato nel periodo 2015-2019 in media 2,12 Rtd(b) ogni 10mila abitanti. Trentino, Emilia-Romagna e Toscana hanno rispettivamente 3,49, 3,18 e 3,06 ricercatori e, in fondo alla classifica, Basilicata con 0,83, Calabria con 0,91 e Puglia con 1,01 ricercatori ogni 10 mila abitanti.

Se si osserva la figura 2, si rileva una correlazione positiva ma non certamente forte (indice di Pearson = 0.47) tra i due indicatori, con alcune disparità. La Sicilia, ad esempio, ha un indicatore Vqr superiore a Umbria, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Marche, ma ha reclutato 1,42 ricercatori ogni 10 mila abitanti rispetto ai circa 2,5 delle altre regioni e ai 3,5 del solo Trentino-Alto Adige. Analogo discorso può farsi per la Puglia. Emblematico il confronto tra Calabria e Trentino-Alto Adige con la prima che, nonostante una Vqr lievemente superiore, ha reclutato solo 0,9 ricercatori rispetto alla seconda, che ne ha reclutati quasi il quadruplo. Vale un discorso analogo per il Veneto rispetto alla Toscana o per il Friuli-Venezia Giulia rispetto al Trentino-Alto Adige.

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L’occasione del Pnrr

Ci sembra evidente che da una parte il sottofinanziamento, dall’altra gli effetti distorsivi sul sistema universitario della dinamica centro-periferia contrastino con gli assi strategici del Piano nazionale ripresa e resilienza, in particolare con l’obiettivo della coesione sociale e territoriale, che richiederebbe una presenza diffusa e, ovviamente, qualificata delle istituzioni della formazione terziaria e della ricerca sul territorio nazionale.

Gli importanti investimenti e i processi di riforma in atto nel sistema universitario hanno il grande merito di inaugurare una stagione di innovazioni istituzionali e di nuovi investimenti nella ricerca. Tuttavia, in assenza di un cambiamento nei meccanismi di distribuzione dell’Ffo, si corre il rischio di amplificare le disuguaglianze tra “centro” e “periferia” e di trovarci nel 2026 (con Pnrr terminato) in un paese ancora più spaccato. Ad esempio, si potrebbe pensare di aumentare significativamente le risorse che vengono distribuite sulla base della programmazione triennale, trasformandola in uno strumento di accordo tra ministero e singoli atenei, per intervenire sui problemi strutturali di alcuni senza però incorrere nel rischio di premiare maggiormente gli attori più capaci di esercitare pressione politica (i grandi atenei ad esempio). Inoltre, l’erogazione dei finanziamenti andrebbe vincolata al raggiungimento efficiente di obiettivi rilevanti per l’intero sistema. In tal modo si potrebbe realizzare, almeno parzialmente, una premialità che non sottrae risorse, ma le eroga su risultati sostanzialmente rilevanti per il singolo ateneo e per l’intero paese.

A dieci anni dalla riforma Gelmini, sarebbe il caso di apportare gli opportuni correttivi per rendere il sistema più equo e competitivo. Non farlo vorrà dire accontentarsi di un paese dove solo gli studenti (pochi) che potranno sostenere elevati costi di spostamento potranno permettersi la formazione migliore, mentre gli altri (molti) potranno accedere solo a una formazione di serie B.

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