Tratto da lavoce.info
DI CHIARA SARACENO, docente di sociologia della famiglia presso l’università di Torino
Il comitato scientifico di valutazione ha indicato dieci proposte per modificare il reddito di cittadinanza. Il governo ha scelto un’altra strada, ostacolando i beneficiari. Ma il problema dell’avvio al lavoro è l’assenza di politiche attive.
Il rapporto del comitato scientifico di valutazione
Il comitato scientifico di valutazione del reddito di cittadinanza – previsto all’articolo 10, comma 1-bis, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, ma nominato solo a marzo di quest’anno, composto da studiose/i e rappresentanti di Anpal, Inapp, Inps e del Dipartimento inclusione del ministero del Lavoro – ha prodotto un primo rapporto.
Vi vengono evidenziati cinque tipi di criticità nel disegno della misura, che andrebbero modificati per renderla più equa ed efficace. Riguardano: 1) i criteri di accesso alla misura; 2) la difformità nel grado di sostegno al reddito a seconda dell’ampiezza e composizione per età della famiglia; 3) la valutazione, per chi ha i requisiti, delle risorse disponibili (reddito, ricchezza mobiliare e immobiliare) ai fini della determinazione dell’entità del sostegno; 4) l’implementazione dei patti per il lavoro; 5) l’implementazione dei patti per l’inclusione sociale.
Per correggere queste criticità il comitato ha formulato dieci proposte:
La modifica della scala di equivalenza che al momento penalizza le famiglie con minorenni e quelle numerose, non solo rispetto all’importo (cosa che può essere in parte corretta dall’introduzione dell’assegno unico), ma anche rispetto all’accesso. Viene proposto di dare ai minorenni lo stesso coefficiente degli adulti e di alzare a 2,8 (rispetto al 2,1 attuale) il coefficiente massimo. Contestualmente la soglia massima di reddito per una persona sola potrebbe essere diminuita a 5.600 euro e l’importo massimo del Rdc a 450;
L’abbassamento a cinque anni del requisito di residenza per gli stranieri, in modo da poter intervenire tempestivamente sulle condizioni di disagio, prima che si cronicizzino
La modulazione del contributo per l’affitto in base alla numerosità della famiglia.
La considerazione di una parte del patrimonio mobiliare come reddito ai fini della determinazione del beneficio, in modo da evitare oggettive disparità di trattamento.
la modifica dei criteri di congruità dell’offerta di lavoro, per tenere meglio conto delle basse qualifiche e della distanza dal mercato del lavoro di molti beneficiari pur teoricamente “occupabili”, per incoraggiarli a fare esperienze di lavoro anche parziali e temporanee, ma considerando congrue dal punto di vista della distanza solo offerte nel raggio di 100 km.
Riduzione dell’attuale altissima aliquota marginale che scoraggia il lavoro regolare, portandola dall’80 al 60 per cento e senza limiti di tempo, ma fino alla soglia di imposizione fiscale.
Eliminazione dell’imposizione di una dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro da parte di tutti i beneficiari, richiedendola solo a coloro che vengono indirizzati ai centri per l’impiego, in modo da evitare inutili duplicazioni di prese in carico da parte di questi e dei servizi sociali
Estensione degli incentivi ai datori di lavoro che offrono un contratto almeno annuale a tempo pieno oppure a orario parziale ma a tempo indeterminato, sospendendo anche, in attesa di un aumento dell’efficienza dei centri per l’impiego e delle piattaforme, l’obbligo a registrarsi sulla piattaforma apposita.
Consentire che i partecipanti ai progetti di utilità collettiva – Puc – vengano individuati sulla base delle competenze e interessi.
Eliminare la norma, controproducente e in radicale contrasto con ogni principio di gestione prudente del bilancio familiare, che richiede di spendere integralmente il beneficio mensile, salvo venir decurtato il mese successivo della somma non spesa.
Si tratta di proposte in parte simili a quelle avanzate da altri addetti ai lavori, in parte nuove. Il comitato non è invece d’accordo con l’introduzione di soglie differenziate a livello territoriale, una proposta ripresa anche da Massimo Baldini su questo sito. Non solo perché, nel caso, dovrebbero essere più di due o tre, per tenere conto dell’effettiva variabilità del costo della vita, ma perché, accanto a quest’ultima, occorrerebbe tenere conto anche della disponibilità di beni pubblici, che sono generalmente meno presenti là dove il costo della vita è più basso. Il comitato suggerisce invece di considerare il Rdc il livello base, che, a differenza di quanto avviene oggi, può e deve essere integrato al livello locale in base a una valutazione più fine dei bisogni e delle risorse.
Una stretta dal valore simbolico
Il rapporto è stato reso pubblico il 9 novembre, ma i suoi risultati e relative proposte erano già stati anticipati al ministro del Lavoro e portati al tavolo in cui veniva definita la legge di bilancio.
Come ha osservato Baldini, tuttavia, poco o nulla di quanto proposto dal comitato ha trovato accoglimento. Al contrario, alcune delle modifiche inserite sembrano rispondere più a una narrazione più o meno fantasiosa e ideologica, e pesantemente negativa, sui beneficiari del reddito di cittadinanza che a una analisi dei dati empirici. In particolare, la narrazione per cui i beneficiari rifiuterebbero le offerte di lavoro perché il Rdc dà loro abbastanza di che vivere, non trova riscontro empirico non solo nelle somme effettivamente percepite – 577 euro in media per famiglia, non per individuo, al mese – ma neanche in dati attendibili. Manca infatti una base dati nazionale che documenti le offerte effettivamente fatte ai beneficiari “occupabili” (un terzo circa di tutti i beneficiari) e i rifiuti da parte di questi ultimi. Non è ancora stata risolta la questione di come mettere in comunicazione e condivisione centri per l’impiego che dipendono dalle regioni. Quello che sappiamo è che meno di un terzo dei teoricamente “occupabili” è stato preso in carico da un Cpi. Il che non significa che abbia ricevuto una proposta di lavoro o di formazione, ma che il suo caso ha cominciato a essere esaminato. Quindi la stretta inserita in finanziaria, in base alla quale le offerte rifiutabili senza decadere dal beneficio non sono più tre, ma due, ha valore puramente simbolico, che rafforza l’idea dei beneficiari come pigri nullafacenti, evitando di mettere a fuoco la carenza di politiche attive e la mancanza di domanda di lavoro di qualità adeguata alle basse qualifiche della stragrande maggioranza dei beneficiari.
Analogo significato ha l’aver ridefinito come congrua una seconda offerta di lavoro su tutto il territorio nazionale. Come se un imprenditore veneto andasse a cercare possibili lavoratori tra i beneficiari campani o siciliani e questi potessero permettersi i costi di spostamento, oltre che organizzativi, stanti i bassi salari cui possono aspirare con le loro qualifiche. Se l’attivazione verso il lavoro non sta funzionando come ci si aspettava, quindi, non è “colpa dei beneficiari”, ma della scarsità, quando non assenza, di politiche attive, unita alla scarsità di una domanda di lavoro adeguata alle caratteristiche di questa particolare offerta. Analogamente, se i patti per l’inclusione stentano a partire, così come i Puc (progetti di utilità collettiva), non è colpa della resistenza dei beneficiari, ma della difficoltà in cui si trovano molti servizi sociali a far fronte a questo nuovo compito e alla complessità della governance dei Puc.
*L’autrice è Presidente del Comitato Scientifico per la valutazione del Reddito di cittadinanza
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