Tratto da lavoce.info
di Tommaso Di Tanno, docente al Master Tributario dell’Università Bocconi.
Quando si parla di riforma del fisco, ci si sofferma molto sugli aspetti economici e poco sui profili organizzativi e giurisdizionali. Ma il buon funzionamento dell’amministrazione finanziaria resta una questione centrale in qualsiasi sistema.
Nessun fisco è perfetto
Non esiste un sistema fiscale perfetto né c’è paese che si dichiari soddisfatto del suo. E dunque anche da noi va di moda, da tempo, invocarne il cambiamento così che risulti al tempo stesso (i) più giusto; (ii) meno invasivo; (iii) più semplice.
Sono caratteri ambiziosi, eppure in qualche misura contraddittori e che richiedono una certa comprensione che non si tratta solo di materia economica (gettito, aliquote, base imponibile, e così via), ma anche di presupposti organizzativi (controlli, riscossione, sanzione) e giurisdizionali (liti, sanatorie, prescrizioni).
L’attenzione si è concentrata soprattutto, come forse è giusto, sui profili economici. La conformazione dell’Irpef; patrimoniale sì o no; l’abrogazione dell’Irap; un riequilibrio fra imposizione diretta e indiretta; i tributi di scopo (carbon tax e plastic tax); quelli locali e nazionali. Meno si è discusso, invece, sui profili organizzativi e giurisdizionali. Sennonché il fastidio verso il “fisco” viene assai spesso da questi ultimi fattori più che da quelli puramente economici.
Far funzionare la macchina
Il primo tema, anche in ordine di importanza, è proprio la macchina fiscale. Se si vuole combattere l’evasione – tema con valenza sia economica che politica – la macchina deve essere innanzitutto numericamente adeguata e distribuita in funzione della ricchezza da tassare piuttosto che della residenza cui aspira il singolo funzionario (o il di lui protettore). I criteri di selezione e formazione del personale devono tenere conto che gli accertamenti nascono da un lavoro preparatorio fatto a tavolino, con strumenti di ordine statistico/campionario e con una tempistica rivolta al presente o a un passato assai recente e non al limite di scadenza del periodo di accertamento (nei fatti 5 anni). Occorre grande dimestichezza con l’uso di banche dati e va migliorato il rapporto (oggi infruttuosamente competitivo) fra Guardia di finanza e Agenzia delle entrate. La prima più attrezzata per le verifiche in loco; la seconda più ferrata nella costruzione degli strumenti che legittimano la richiesta del tributo. Insomma, l’attuale struttura basata su meccanismi concorsuali (con larga prevalenza di materie giuridiche e di economia pubblica) e su uno stato giuridico tutto interno alla pubblica amministrazione – con i vincoli che ne conseguono – è idonea a perseguire gli ambiziosi risultati attesi o si deve ricorrere a una maggiore flessibilità nella costruzione e gestione degli apparati tributari?
Il tributo accertato, peraltro, va prima o poi effettivamente riscosso. Gli strumenti coercitivi a disposizione – diversamente da quanto avviene in paesi a noi comparabili – sono però scadenti, farraginosi nell’attivazione, spesso sottoutilizzati perché sgradevoli e oggetto di facili campagne populistiche anti “fisco predatorio” (vedi le campagne contro le “ganasce di Equitalia”). Il risultato è un crescente accumulo di crediti d’imposta nei fatti inesigibili. Basti vedere l’ammontare in aumento di debiti d’imposta – pur dichiarati – ma non onorati nella chiara consapevolezza della lenta reazione del fisco e nella fondata attesa di una qualche sanatoria a buon mercato. E constatare altresì che se si insegue un debitore troppo in ritardo può succedere che esso sparisca del tutto o abbia pagato (illegittimamente) altri creditori prima del fisco. Che dire, poi, del fatto che i crediti fiscali vanno trattati tutti nello stesso modo, senza poter distinguere managerialmente quello di svariati milioni rispetto a quello di qualche migliaio di euro?
Insomma, pur avendo fatto passi avanti nell’organizzazione e nella “vendita di certezze” (ruling e cooperative compliance), il funzionamento dell’amministrazione finanziaria resta parte indispensabile di qualsivoglia sistema tributario perché l’attrezzatura e i comportamenti del suo personale ne fanno emergere rapidamente bontà e difetti.
Come reprimere l’illecito
Il secondo tema è quello delle frequenti liti interpretative e della repressione dell’illecito.
Le liti sono giustificate dalla qualità della normazione (più semplice uguale a meno precisa) e dalla mancanza di un codice unico (troppe norme e frequenti contraddizioni), ma anche da un atteggiamento tendenzialmente restrittivo del fisco. Chiusura ancestrale (timore di responsabilità patrimoniali), che però fa recitare al fisco una funzione frenante anziché trasformarlo – specie a fronte di agevolazioni – in strumento di crescita del paese (come fa, ad esempio, il fisco olandese). Oggi, invece, fa crescere solo il contenzioso.
L’illecito va comunque represso e la linea ispiratrice dovrebbe essere: più rapida e facile è la riscossione del tributo non pagato, minor valore ha la sanzione. Ma deve essere vero anche il contrario. Le sanzioni, poi, vanno applicate e non solo minacciate. Specie quelle penali. Magari anche ridotte nell’entità, ma applicate davvero e rapidamente. Sono davvero necessari tre gradi di giudizio? Forse sì per la parte penale, ma forse no per la parte amministrativa. Al tempo stesso, le commissioni tributarie devono diventare tribunali veri (cioè con giudici togati) e non farse pirandelliane.
Dulcis in fundo: le innovazioni sopradescritte hanno un costo. Insomma, un fisco migliore e introiti maggiori non sono gratis. La formula “senza maggiori oneri per il bilancio dello stato” non funziona.