Tratto da lavoce.info
di Gilberto Turati,
La bozza della legge di bilancio definisce le risorse per la sanità. Ma non affronta tre questioni cruciali: la ristrutturazione della rete ospedaliera da coordinare con i servizi territoriali, la dotazione di personale e il ruolo delle regioni.
Le risorse del Fondo sanitario nazionale
Il governo Draghi ha varato nei giorni scorsi la bozza (incompleta) della legge di bilancio per il 2022. Per quanto riguarda la sanità, da un lato sono state confermate le risorse del Documento programmatico di bilancio, dall’altro restano meno chiare le linee di riforma complessive, per le quali abbiamo solo i titoli degli articoli sottoposti a verifica dal ministero dell’Economia e Finanza e dal ministero della Salute, con la contingenza politica che spinge ancora la discussione sulla campagna vaccinale e l’allungamento dello stato di emergenza nazionale.
Crescono dunque le risorse per il Fondo sanitario nazionale, ma crescono meno di quanto dovrebbe aumentare il Pil in base alle stime del governo. Sostanzialmente tutti i giornali hanno messo in luce come il Fondo sanitario nazionale sia destinato a crescere di 2 miliardi all’anno tra il 2022 e il 2024, passando da 124 a 128 miliardi di euro. Il fabbisogno sanitario nazionale standard era stato determinato in 121 miliardi di euro nel 2021 e il governo precedente aveva già programmato un aumento di circa 1 miliardo per il 2022. Ma se valgono le previsioni del governo sulla crescita nominale del Pil, a dispetto di questi numeri, in quota di Pil il finanziamento è destinato a scendere nei prossimi anni, riportandosi in linea con il trend che aveva caratterizzato l’azione dei governi precedenti.
Come si nota chiaramente dalla figura 1, infatti, se si prendono in considerazione le previsioni del governo in merito alla crescita del Pil nominale da qui al 2024, gli anni del Covid-19 saranno ricordati come molto particolari rispetto alla politica di stabilizzazione della spesa in rapporto al Pil, su valori nell’intorno del 6,5 per cento. Non c’è nulla di sorprendente: con un finanziamento crescente in termini nominali, la spesa sul Pil è schizzata sopra il 7 per cento nel 2020 soprattutto per l’effetto della riduzione marcata del denominatore; il rimbalzo del Pil negli anni seguenti spiega la riduzione del finanziamento in quota di Pil, dati gli stanziamenti del governo. Bene saperlo in anticipo, per evitare le discussioni della prima ondata del Covid-19, quando tutto il problema della pandemia era ridotto alla nostra spesa sanitaria più bassa rispetto ad altri paesi come Francia o Germania.
Tre questioni strategiche
Ma per quanto siano importanti, i soldi non sono certo l’unica cosa che conta: è cruciale capire cosa farne dei soldi in più per costruire un Ssn pronto alle sfide del prossimo futuro. Su questo, al di là di qualche parola chiave (come “territorio” o “digitale”, riprese dal Piano nazionale di ripresa e resilienza), sono ancora molte le incertezze. Aggravate da una discussione tuttora largamente focalizzata sulla gestione della pandemia. Mi soffermo su tre sole questioni tra le tante: la ristrutturazione della rete ospedaliera e la sua integrazione con il territorio, la conseguente necessità di personale, la conferma del ruolo delle regioni.
Sul primo punto, non si può parlare di territorio senza parlare anche di ospedale. Da questo punto di vista, le bozze di aggiornamento del Dm 70 del 2015, quello per intendersi che introduce standard strutturali per gli ospedali, sembrano confermarne largamente l’impianto originario. A partire da quella che è stata considerata una delle criticità evidenziate nella prima fase del Covid-19, lo standard di posti letto per abitanti, ribadito a 3,7 posti letto ogni mille abitanti (3 per acuti e 0,7 per lungodegenza e riabilitazione), se si esclude qualche letto in più (0,07 e 0,03 per mille abitanti) per le terapie intensive e sub-intensive.
Si conferma anche la classificazione degli ospedali tra presidi di base, di primo e di secondo livello, che è basata sull’idea (suffragata dai risultati del Programma nazionale esiti) che per ottenere buoni esiti servono anche soglie minime di volumi. Le regioni hanno ampiamente avversato il Dm 70, giudicato eccessivamente rigido visto che imponeva la chiusura dei piccoli presidi considerati troppo rischiosi, e hanno tergiversato, come spesso è accaduto anche per altre riforme. Cosa succederà ora? Riuscirà il governo a imporre la ristrutturazione della rete ospedaliera coordinandola con quella dei servizi territoriali tramite la realizzazione degli ospedali e delle case della comunità previsti dal Pnrr?
Secondo, non basta costruire le strutture, serve anche pensare al personale che ne permetterà l’operatività. L’azione degli ultimi governi si è rivolta a un aumento delle borse di specializzazione, che è stata salutata da più parti come un successo. Ma se aumentano i posti letti in terapia intensiva e semi-intensiva serve personale specializzato, a partire dagli anestesisti; non servono i cardiologi o gli oculisti. Peccato che si fatichi a trovare proprio gli anestesisti e gli specialisti della medicina d’urgenza, anche perché sono tra le specializzazioni meno ambite dai giovani medici. Sarebbe interessante sapere dal ministero quanti dei posti del Piano Arcuri siano stati effettivamente realizzati e poi dotati di staff adeguato.
Un ragionamento analogo vale per le case della comunità: siamo sicuri che i medici di medicina generale vogliano collaborare? Non è meglio pensare a una nuova specializzazione sulla sanità territoriale che attragga nuove leve con una formazione specifica contemporaneamente alla realizzazione di queste strutture?
Terzo, sembra essersi placata la discussione sulla riforma del Titolo V della Costituzione come condizione imprescindibile per garantire una maggiore eguaglianza nei servizi tra le diverse aree territoriali e per affrontare eventuali pandemie future. Ma la conferma dell’attribuzione di funzioni alle regioni dovrebbe essere accompagnata dalla revisione del sistema di finanziamento regionale, con l’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, soprattutto se il governo pensa al taglio dell’Irap, l’imposta creata nel 1997 per il finanziamento regionale della sanità. Anche di questo non si parla; e quando se ne parla, lo si fa solo sul tavolo della riforma del fisco, come se ciascuno pensasse al proprio ingranaggio e non al funzionamento dell’intera macchina. Il rischio di ritrovarsi con l’ingranaggio sbagliato, in queste condizioni, è molto elevato.
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