Tratto da lavoce.info
DI FRANCESCA GASTALDI, professore Associato di Scienza delle Finanze presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza
MARIA GRAZIA PAZIENZA, professore associato di Scienza delle Finanze all’Università di Firenze
E ALBERTO ZANARDI, professore ordinario di scienza delle finanze presso l’Università di Bologna
Dopo il cambio di rotta dell’amministrazione Usa e l’accordo al G7 di giugno, anche in sede Ocse è stato raggiunto un risultato di rilievo nell’ambito della tassazione delle multinazionali. Il rischio però è che si tratti di una soluzione parziale.
Un accordo storico
La stragrande maggioranza dei paesi (130 su 139) che partecipano all’Inclusive Framework (If) su Beps (Base Erosion and Profit Shifting) nell’ambito dell’Ocse ha raggiunto la scorsa settimana, dopo anni di trattative, un accordo di grande rilievo sulle linee generali di revisione della tassazione dei redditi delle multinazionali (Mne). L’accordo segue quello di inizio giugno dei ministri delle finanze del G7 e soprattutto il radicale cambio di rotta su questi temi della nuova amministrazione Usa, che è stato la vera scintilla del processo di riforma. Tra i (pochi) paesi che per ora non hanno sottoscritto l’accordo, oltre a stati economicamente poco rilevanti, compaiono significativamente tre membri dell’Unione Europea: Irlanda, Ungheria ed Estonia, che applicano regimi di tassazione agevolata sulle imprese.
L’accordo della scorsa settimana si fonda su un duplice pacchetto di misure che ricalcano da vicino il lungo, ma finora infruttuoso, lavoro sviluppato in questi anni dall’Ocse nell’ambito del progetto Beps. In termini essenziali viene prevista l’introduzione:
1) di una Global Minimum Tax (Gmt) con una aliquota effettiva almeno del 15 per cento da applicare ai profitti delle Mne a livello di singolo paese;
2) di un meccanismo di più equa ripartizione internazionale delle basi imponibili (taxing rights) del prelievo sulle Mne, riconoscendone una quota ai paesi dove le Mne vendono beni e servizi (paesi market).
Il nuovo pacchetto di misure dovrebbe essere completato nei profili tecnici entro l’ottobre di quest’anno per poi essere applicato effettivamente già a partire dal 2023. La finalizzazione del nuovo assetto internazionale di tassazione delle Mne dovrà essere accompagnato dalla parallela cancellazione delle Digital Service Tax (Dst), adottate unilateralmente da diversi paesi, e di altri prelievi simili.
La global minimum tax
La Gmt (punto 1 dell’accordo), già prevista dal Pillar II del progetto Beps, ha l’obiettivo di arginare l’erosione delle basi imponibili e la pianificazione fiscale delle Mne con il loro spostamento verso i paesi a fiscalità privilegiata (profit shifting). Nel nuovo assetto ogni paese resterebbe libero di fissare la propria aliquota di imposta anche al di sotto del livello minimo del 15 per cento, ma i paesi di residenza delle Mne (sempre che queste abbiano ricavi non inferiori a 750 milioni di euro) avrebbero il diritto di integrare il prelievo fino almeno al livello minimo di tassazione, mitigando in tal modo gli incentivi al profit shifting. Nel lungo periodo anche i paesi con aliquote effettive inferiori al 15 per cento avrebbero incentivo ad adeguarsi per recuperare quote di gettito che andrebbero comunque ai paesi di residenza.
Il funzionamento della Gmt può essere meglio compreso rappresentando, a titolo di esempio e in termini stilizzati, una Mne che opera in tre diversi paesi (tabella 1): X (paese di residenza, come gli Usa, dove ha la propria sede legale e sviluppa le proprie tecnologie) e Y e Z, paesi dove produce e vende beni e servizi attraverso le proprie imprese controllate (paesi market). In corrispondenza di questi paesi il bilancio dell’Mne riporta ricavi rispettivamente per 1.000, 800 e 200 (riga 1) a cui corrispondono profitti di bilancio (assumendo per semplicità un margine di profitto omogeneo del 30 per cento) rispettivamente per 300, 240 e 60 (riga 2). Pertanto il bilancio consolidato globale della Mne riporta ricavi per 2 mila e profitti per 600. Nel sistema attuale ogni paese tassa la base imponibile di competenza (i profitti di bilancio – riga 2) secondo l’aliquota che decide di applicare. Qui si ipotizza che l’aliquota sia pari a 21, 12,5 e 24 per cento rispettivamente per X, Y e Z (riga 4). I gettiti risultanti saranno pari a 63, 30 e 14,4 e pertanto il prelievo complessivo sulla Mne sarà di 107,4 (riga 5). Nel nuovo regime della Gmt, assumendo un’aliquota del 15 per cento (cioè il livello minimo indicato dall’accordo del G7 e dei paesi dell’IF), Y e Z continueranno a tassare la Mne esattamente come prima mentre X (paese di residenza) applicherà, oltre al prelievo nazionale, un prelievo compensativo sui profitti nel paese Y con una aliquota del 2,5 per cento (pari alla differenza tra l’aliquota del 15 e quella del 12,5 per cento). Ne deriverà che il prelievo complessivo sulla Mne aumenterà a 113,4 a vantaggio del (solo) paese X che vedrà il gettito raccolto crescere a 69, recuperando in tal modo il tax deficit dovuto al regime agevolato praticato dal paese Y (riga 6). L’esempio evidenzia come l’introduzione della Gmt avvantaggi il paese di residenza (che applica l’aliquota minima sui profitti consolidati) ma lasci invariata (almeno nel breve periodo, come detto) la posizione degli altri paesi.
Va comunque sottolineato che l’effettivo impatto dell’introduzione della GMT sull’erosione e sulla pianificazione fiscale dipenderà da come verranno risolti i molti aspetti critici relativi alla definizione della base imponibile, come il trattamento degli aggiustamenti fiscali, per esempio, sugli investimenti e sugli incentivi (si veda Di Tanno e Giannini). Inoltre, un livello troppo basso dell’aliquota (il 15 per cento dell’accordo è già inferiore al 21 della recente proposta di riforma della Global Intangible Low-Taxed Income dell’amministrazione Biden) potrebbe lasciare ancora spazio alla convenienza al profit shifting rispetto ai paesi che continueranno ad applicare aliquote superiori al 15 per cento.
La soluzione della Gmt riguarda la generalità delle Mne e non risolve tuttavia i problemi specifici della tassazione dell’economia digitale, i quali richiedono un intervento mirato (punto 2 dell’accordo). In particolare, nella maggior parte dei paesi market le Mne digitali operano senza presenza fisica (permanent establishment – Pe), o con presenza fisica minima, che nei regimi convenzionali vigenti serve a definire il diritto (nexus) a tassare i redditi prodotti. Come è noto, in Europa le Mne digitali contabilizzano la maggior parte dei ricavi – a prescindere dal paese market dove vengono effettivamente realizzati – in paesi come l’Irlanda, che applica una tassazione privilegiata. Per molti paesi market quindi il problema fondamentale non è tanto il livello dell’aliquota di imposta (la Gmt, appunto) quanto il riconoscimento del proprio diritto a tassare una quota dei profitti consolidati (taxing rights). Per risolvere questa seconda questione, l’accordo del G7 e dei paesi dell’If prospetta una regola per una più equa ripartizione dei profitti a favore di tutti i paesi market sulla base dei ricavi effettivamente prodotti per superare la concentrazione dei ricavi contabili solo in alcuni paesi. Nell’accordo dell’If è specificato che i nuovi diritti possono essere assegnati a un paese market (nuovo nexus) solo se la Mne ne deriva almeno 1 milione di euro di ricavi (250 mila euro nel caso di paesi con un Pil inferiore a 40 miliardi).
In primo luogo, si stabilisce che ai paesi market debba essere comunque attribuita una quota, definita tra il 20 e il 30 per cento, dei profitti consolidati della Mne (se di grandi dimensioni, con un fatturato globale di almeno 20 miliardi di euro) ridotti di una frazione corrispondente a un margine di reddittività ordinaria sui ricavi del 10 per cento (residual profit) . Cioè, nell’ipotesi massima:
Taxing rights = (30%) * residual profit = (30%) * (profitti – 10% ricavi)
L’applicazione di questa formula è riportata nella seconda parte della tabella 1 dove si ipotizza che i ricavi effettivamente realizzati nei vari paesi, come tipicamente si verifica nell’economia digitale, siano diversi da quelli riportati nei bilanci della Mne. In particolare la Mne, per sfruttare la tassazione agevolata applicata dal paese Y (pari, nel nostro esempio, come detto, al 12,5 per cento, inferiore a quella applicata nei paesi X e Z) concentra i ricavi di bilancio maggiormente in quel paese rispetto a Z: nel paese Y i ricavi di bilancio sono il 40 per cento del totale (riga 3) e quelli effettivi solo il 10 per cento (riga 9), mentre nel paese Z si verifica il contrario. Nell’ipotesi massima dell’accordo (30 per cento del residual profit), e sempre con l’ipotesi che i profitti costituiscano il 30 per cento dei ricavi (600 per la Mne), i nuovi taxing rights attribuiti al complesso dei paesi market saranno pari a 120 (riga 10, prima colonna), appena il 20 per cento del profitto complessivo della Mne (riga 11, prima colonna).
In secondo luogo, si prefigura che la ripartizione del complesso dei nuovi taxing rights (nel nostro esempio, come detto, 120) tra i singoli paesi market che ne hanno diritto sia proporzionale alle vendite (ricavi effettivi – riga 9) nei vari paesi. Nel nostro esempio, ai tre paesi dovrebbero essere assegnati rispettivamente 60, 12 e 48 (riga 10). Ne deriva che ovviamente la semplice somma dei taxing rights previsti dalla formula con quelli attuali (che gonfierebbe erroneamente i profitti complessivi della Mne a 720 – riga 12) comporterebbe un problema di “doppia attribuzione” di base imponibile che dovrà essere risolto attraverso un meccanismo ancora non dettagliato di riallocazione dei taxing rights tra paesi. Nell’accordo è solo richiamato un meccanismo per definire un tetto all’attribuzione di taxing rights aggiuntivi nei paesi market dove la Mne già paga le imposte (marketing and distribuition profits safe harbour). Inoltre, si richiamano i meccanismi dell’esenzione e del credito per l’eliminazione della doppia imposizione.
Le criticità
La criticità più importante riguarda la capacità di questo meccanismo di garantire a paesi come Z (si pensi sempre all’Italia) un effettivo incremento della loro quota di prelievo rispetto ai loro profitti effettivi: nel nostro esempio, aumentando i taxing rights di 48 (riga 10), questi passerebbero nel complesso da 60 (riga 2) a 108 (riga 12) e di conseguenza la quota di Z passerebbe dal 10 (riga 3) al 18 per cento (riga 13), rimanendo ben lontani da quella dei profitti effettivi (40 per cento – riga 9).
Come si è visto nell’esempio, se anche la quota dell’extra-profitto che verrà effettivamente riservata ai paesi market dovesse collocarsi al livello massimo indicato dall’accordo del 30 per cento, la portata dell’attribuzione dei nuovi taxing rights sarà in realtà assai limitata. Una quota più elevata garantirebbe maggiore equità del prelievo nei paesi markets attualmente penalizzati, ma esacerberebbe il problema della “doppia attribuzione” rendendo evidentemente più complesso l’accordo tra paesi cedenti e beneficiari. Inoltre, tale portata dipende inversamente dal tasso di profitto normale (che nell’accordo, come detto, è stabilito al 10 per cento) in quanto più elevata è l’asticella fissata per il tasso di profitto normale, minore è il numero di Mne con un extra-profitto che può garantire taxing rights da attribuire ai paesi market. Per dare qualche riferimento reale, la tabella 2 illustra i margini di profitto sui ricavi riportati da alcune delle principali Mne digitali nel 2020: si va dal 12,8 per cento di Netflix al 33,9 per cento di Facebook con, tuttavia, Amazon che, con un margine di profitto di appena il 6,3 per cento resterebbe esclusa dal meccanismo di attribuzione. Applicando la formula di determinazione dei nuovi taxing rights, sempre nell’ipotesi minima del 30 per cento degli extra-profitti, i taxing rights attribuiti ai paesi market sui rispettivi profitti totali andranno dal 6,6 per cento di Netflix al 21,2 per cento di Facebook.
L’impegno del G7 e dell’If rappresenta un importante punto di svolta sul piano dell’affermazione del principio del coordinamento fiscale per evitare la race to the bottom delle aliquote di imposta. Tuttavia l’applicazione di questo meccanismo, molto complesso, rischia di essere una soluzione soltanto parziale ai problemi del sistema di tassazione delle Mne, soprattutto quelli delle imprese digitali, che riguardano la maggior parte dei paesi europei (compresa l’Italia). Le risorse in gioco nell’accordo sembrerebbero limitate non solo per i parametri su cui si sta definendo l’accordo, ma anche per il numero ristretto di imprese coinvolte. Infatti, le Mne digitali interessate devono esser grandi e comunque sono escluse le imprese finanziarie e quelle del settore estrattivo. Allo stesso tempo il tentativo di ampliare le risorse disponibili potrebbe mettere in discussione l’accordo raggiunto, in particolare tra gli Stati Uniti e i paesi europei, e inasprire le resistenze interne ai paesi dell’Unione Europea rendendo più difficile il raggiungimento di una prospettiva comune sui temi tributari.
*Le opinioni espresse in questo articolo sono personali degli autori e non coinvolgono in alcun modo l’istituzione di appartenenza.
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