Tratto da la voce.info
di Marco Ventoruzzo
Le imprese devono certo perseguire condotte virtuose e responsabili, ma con regole chiare e precise. Invece la proposta di direttiva europea sulla responsabilità d’impresa dimostra poca conoscenza del diritto e un atteggiamento populista e superficiale.
La categoria degli “stakeholders”
L’ultima moda nel dibattito sulle regole che governano le imprese è la previsione di formule – più o meno vincolanti, spesso frutto dell’autodisciplina – volte a richiedere che le società si facciano carico di interessi ed esigenze diffuse anche di soggetti che non hanno investito nell’impresa: i cosiddetti “stakeholders”, che comprendono spesso categorie eterogenee e definite in modo ambiguo.
Questo movimento d’opinione, naturalmente subito intercettato dalla politica e da una serie di consulenti specializzati, presenta luci e ombre. I termini della questione sono spesso posti in modo semplicistico e divisivo. Anticipo subito che, personalmente, ritengo gli obiettivi perseguiti largamente meritevoli e condivisibili: l’attenzione a fattori Esg ha esternalità positive, può ridurre rischi e migliorare i risultati gestionali nel lungo periodo, ed è comunque ormai una necessità anche commerciale. Occorrono però realismo e buon senso nel bilanciare questi obiettivi con altre esigenze.
Ma al di là delle opinioni sull’opportunità che le imprese siano “buoni cittadini” anche oltre specifici doveri giuridici e al di là di convenienze commerciali e mode, quando si tratta di tradurre pur legittime aspirazioni in norme vincolanti e sanzionabili, le cose si complicano. Le formule presentano infatti spesso una vaghezza tale da renderle giuridicamente pericolose o poco utili. Il diritto non può infatti permettersi il lusso della approssimazione e della imprecisione. D’altro lato, è discutibile voler attribuire alle imprese un ruolo di supplenza di regole chiare, puntuali e prescrittive che distinguano ciò che è lecito da ciò che non lo è, imponendo loro generali (e potenzialmente sterminati) obblighi di “comportarsi bene”.
Il rischio è di avvicinarsi a una discutibile “legislazione dell’etica”. Inoltre, richiedere e imporre agli amministratori di società di tenere conto di interessi tanto diversi e spesso confliggenti (lavoratori, comunità, associazioni ambientaliste, fornitori, clienti) significa ampliarne la discrezionalità rispetto al già non facile compito di una gestione aziendale corretta, efficace ed efficiente.
La proposta di direttiva
L’esempio più recente ed eclatante di questa nuova tendenza è una proposta del Parlamento europeo di direttiva sulla responsabilità d’impresa, approvata il 10 marzo. In estrema sintesi, e con qualche semplificazione, la disciplina imporrebbe alle imprese maggiori, ma anche a molte altre di medie e piccole dimensioni, che operano in Europa, un generale dovere di rispettare «i diritti umani, l’ambiente e le regole del buon governo», in relazione sia alle proprie condotte, sia a quelle di soggetti terzi, ovunque collocati, con cui hanno rapporti commerciali (la cosiddetta “catena del valore”). Detto così parrebbe doversi subito concludere: benissimo, ci mancherebbe altro, è giusto che le imprese rispettino questi obiettivi! Peccato che gli obiettivi non siano ben definiti e che la disciplina prevista susciti molte perplessità.
Per dare mordente a questo dovere, la proposta richiede che le imprese adottino sistemi di controllo e verifica, con dettagliati doveri di informazione circa la loro progettazione, attuazione ed efficacia. Le imprese devono poi adottare formali meccanismi per ricevere, gestire e rispondere a lamentele, rispetto ai vaghi obiettivi, formulate da pressoché qualsiasi interessato (definito in modo amplissimo come qualsiasi individuo, ente o gruppo che «potrebbe essere toccato da impatti negativi attuali o potenziali» della loro attività). E devono contribuire ad “azioni rimediali” non giudiziarie descritte vagamente. Gli stati devono inoltre individuare autorità pubbliche di supervisione deputate a vigilare sulla materia, prevedere un regime di sanzioni amministrative e, soprattutto, introdurre una generale norma sulla responsabilità civile, ai sensi dell’articolo 19 del testo di direttiva. Si tratta di una norma molto ampia: dopo aver precisato che il rispetto dei sistemi di controllo imposti dalla direttiva non esime dalla responsabilità, prevede testualmente che le imprese devono rispondere dei danni derivanti da «potenziali o effettivi impatti negativi» delle loro attività su diritti umani, ambiente e buon governo societario. Si pone sulle stesse imprese l’onere di dimostrare di aver impiegato «tutta la diligenza» per evitare danni al fine di non essere condannate. Limitiamoci ai problemi più macroscopici.
Innanzitutto, gli obblighi la cui violazione è sanzionabile non sono precisamente definiti, ma individuati con un rinvio a una serie di standard internazionali potenzialmente mutevoli e scivolosi. Cosa significa non pregiudicare diritti umani, ambiente e buon governo, nemmeno potenzialmente? Delle due l’una: o parliamo di violazione di specifiche norme e regole di condotta già applicabili, e allora non serve una disposizione ad hoc; oppure si vogliono introdurre doveri nuovi e aggiuntivi. Evidentemente
è la seconda, ma questi doveri aggiuntivi sono amplissimi e generici, il che rischia di renderne l’applicazione a seconda dei casi discrezionale, inefficace o punitiva. Tanto più che si introduce una responsabilità per fatto del terzo (la “catena del valore”) che, nonostante qualche incerto tentativo di ricondurla ad attività del convenuto, moltiplica rischi e costi per le imprese europee.
È poi incredibile che si parli di responsabilità per “danni potenziali”, un vero controsenso giuridico. Forse, è un mero errore di scrittura, che però la dice lunga sulla qualità del dibattito parlamentare e della tecnica normativa.
Ancora, si assiste a una inversione dell’onere della prova per la quale parrebbe che l’impresa possa evitare la responsabilità solo fornendo, in positivo, la prova nemmeno di aver impiegato l’ordinaria diligenza, ma uno standard ancor più severo («all due care»). Proprio per l’ampiezza e genericità dei doveri, e per il fatto che coprono anche condotte di partner commerciali indipendenti e potenzialmente lontani, potrà in molti casi trattarsi di una prova pressoché diabolica, che rischia di trasformare la norma in una forma di responsabilità oggettiva. Si arriva persino, con una regola particolarmente mal scritta (articolo 10, comma 5), a suggerire che eventuali decisioni raggiunte tramite meccanismi di mediazione non siano vincolanti, alimentando il dubbio che un’eventuale transazione con impegno a non fare causa non sia vincolante.
Spazio per azioni strumentali
La platea dei possibili attori è poi ugualmente vasta: non paiono esserci confini quanto alla loro nazionalità e localizzazione e comprende individui, gruppi, ma anche enti che contemplino finalità in materia di ambiente, diritti umani e buon governo, inclusi sindacati, comunità locali e qualsiasi associazione di cittadini. Né paiono valere le normali regole di diritto internazionale privato in tema di limitazione della giurisdizione e sul diritto applicabile, posto che la direttiva dichiara espressamente le norme sulla responsabilità come imperative e di applicazione necessaria. Lo spazio per azioni anche strumentali, quando non pretestuose o temerarie, radicate in Europa è dunque ampio e potrebbe impegnare i nostri già oberati e in cronico ritardo tribunali in complesse controversie internazionali per eventi occorsi in paesi lontani. Nemmeno negli Stati Uniti, tradizionalmente inclini ad affermare un’ampia giurisdizione extraterritoriale delle loro corti su controversie con pochissimi contatti col territorio nazionale, ci si spinge sino a tanto.
Che le imprese perseguano condotte virtuose e siano socialmente responsabili è sacrosanto sotto diversi profili, vorrei sottrarmi alla facile accusa di insensibilità per queste tematiche. Ma ciò deve contemperarsi con esigenze di certezza del diritto, bilanciare costi e benefici e tener conto dei rischi legali e della competitività del sistema produttivo. Addossare simili, vaghe e potenzialmente punitive responsabilità alle imprese pare più una deresponsabilizzazione della politica che una seria costruzione di un “Green New Deal”. Non illudiamoci che ciò non abbia effetti negativi per occupazione ed efficienza, salvo che si pensi (solo) all’occupazione di avvocati, consulenti vari e funzionari chiamati ad applicare nuove regole. Speriamo che il testo proposto venga attentamente ripensato e riscritto.