Tratto da lavoce.info
di Rony Hamaui, professore a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e presidente di Intesa Sanpaolo ForValue.
La Turchia è un paese in crescita e con ambizioni di egemonia, anche nell’anno della pandemia. Ma l’avversione del suo presidente a tassi di interesse alti la espone al rischio di una pericolosa spirale di svalutazione, inflazione e fuga dei capitali.
I tassi di interesse visti da Ankara
Recep Erdogan si professa un uomo religioso, fedele ai dettami del Corano e alla sharia, la legge coranica che vieta la Riba, cioè l’applicazione dei tassi d’interesse ai contratti di debito. È possibile, allora, che il suo retaggio religioso abbia giocato un certo ruolo quando la scorsa settimana ha scacciato senza mezzi termini il governatore della banca centrale turca, Naci Agbal, reo di aver voluto alzare i tassi d’interesse per frenare un’inflazione che continua a galoppare attorno al 16 per cento. L’idiosincrasia del presidente turco agli alti tassi d’interesse, che lo ha indotto a defenestrare tre banchieri centrali nello spazio di poco più di un anno, è tuttavia ufficialmente motivata dal fatto che l’alto costo del denaro, da un lato, indebolisce la crescita economica e, dall’altro, contribuisce a creare inflazione e non a combatterla. Questa consecutio è stata poi giustificata da un’applicazione naif dell’effetto di Fisher, che sotto certe ipotesi prevede l’uguaglianza dei tassi d’interesse reali nei diversi paesi. Pertanto, un aumento del tasso d’interesse nominale in un paese come la Turchia provocherebbe un aumento delle aspettative d’inflazione e quindi stimolerebbe la crescita effettiva dei prezzi. Peccato che l’ipotesi presupponga la perfetta sostituibilità delle attività finanziarie, alquanto remota nel caso turco, data la presenza di un forte rischio di cambio e di credito.
I rischi di un paese in crescita
Al di là di questi dettagli, bisogna riconoscere a Erdogan che lo sviluppo economico è sempre stato una delle sue priorità e probabilmente la principale ragione della sua lunga popolarità.
In effetti, fra il 2003 (anno della sua prima nomina alla guida del paese) e il 2019 l’economia turca è cresciuta mediamente del 5,8 per cento all’anno con punte del 9 per cento. Nel 2020, nonostante sia stato pesantemente colpito dalla pandemia, il paese è stato uno dei pochi, assieme alla Cina, spesso additata a modello, a registrare un tasso di crescita positivo (+1,8 per cento). Il Fondo monetario internazionale prevede per quest’anno una crescita del Pil reale vicino al 6 per cento. Una politica economica sostanzialmente liberista, un apparato industriale ben diversificato e costruito attorno a piccole e medie imprese particolarmente dinamiche, ampi investimenti stranieri e una forte apertura verso l’estero, spiegano questa performance. Certo, il Pil pro-capite, dopo una cavalcata formidabile, a partire dal 2013 ha cominciato ad arretrare, mentre la disoccupazione è salita sopra il 14 per cento, ma con una popolazione in costante crescita che nel 2025 sfiorerà i 90 milioni.
Si sarebbe allora tentati a credere che anche nel caso turco, come in quello cinese, lo sviluppo economico possa andare a braccetto con istituzioni scarsamente democratiche. Tuttavia, il modello turco si differenza grandemente da quello cinese, non solo per i forti deficit delle partite correnti (-3,7 per cento in percentuale al Pil nel 2020) ma soprattutto per il suo grado di apertura finanziaria e la sua instabilità valutaria. Dal 2013 a oggi il tasso di cambio della lira turca si è svalutato del 300 per cento, passando da 2,3 a quasi 9 sull’euro, con oscillazioni giornaliere anche del 15 per cento. Questo nonostante continui e massicci interventi sul mercato valutario, che dal 2019 hanno comportato la perdita di 130 miliardi di dollari in riserve ufficiali. Oggi molti osservatori ritengono che le riserve lorde in valuta del paese si siano ridotte a poco meno di 10 miliardi di dollari, mentre al netto degli swap risultino addirittura negative. Tutto ciò appare particolarmente critico in un paese sempre più “dollarizzato”, in cui imprese e famiglie sono fortemente indebitate in valuta estera: le stime parlano di 140 miliardi di dollari di debiti in valuta, pari al 20 per cento del Pil.
Ecco perché la credibilità è particolarmente importante in un paese come la Turchia: Agbal era riuscito a riconquistarla e ciò aveva permesso un forte recupero della lira e rilevanti afflussi di capitali, ma oggi appare quasi del tutto compromessa. In un clima del genere una spirale svalutazione, inflazione e fuga dei capitali risulta allora probabile e rischiosa. Farebbe aumentare l’onere del debito in valuta di numerose istituzioni e le porterebbe in una situazione di default. Scartata la leva dei tassi d’interesse, per evitare una crisi finanziaria non rimarrebbe che introdurre vincoli ai movimenti di capitale. Un’ipotesi non meno gravosa vista la forte dipendenza del paese dall’afflusso di capitali dall’estero. Insomma, un bel pasticcio per una nazione che ha enormi ambizioni di crescita e di egemonia.