Tratto da lavoce.info
DI VITTORIO FINESCHI, professore Ordinario di Medicina Legale presso l’Università La Sapienza di Roma
PAOLA FRATI, professore Ordinario di medicina legale presso la Sapienza, università degli Studi di Roma
E PAOLO MICCOLI, Professore ordinario di Clinica Chirurgica e poi di Chirurgia Generale dal 1987 al 2017 presso l’Università di Pisa
La copertura vaccinale sufficientemente ampia corrisponde alle finalità costituzionali di tutela della salute e dei diritti altrui. Quindi, si può prevedere l’obbligo per i docenti, anche per salvaguardare gli studenti, i fruitori del servizio scolastico.
La Costituzione e l’obbligo vaccinale
L’articolo 32 della Costituzione sancisce la libertà di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, comprese le vaccinazioni, con la sola eccezione di quelle per cui la legge istituisca un obbligo. E opportunamente Gilberto Turati ci ricorda che l’obbligo vaccinale non è affatto una novità, anzi. L’antitetanica è obbligatoria per una varietà notevole di lavori e attività sportive e quella antitubercolare lo è per il personale sanitario e gli studenti di medicina.
Le due anime del principio di solidarietà si rivolgono da un lato a ogni individuo guardando all’interesse collettivo, ma dall’altro impongono alla collettività, e per essa allo stato, di accordare protezione in ogni caso di sacrificio del diritto del singolo cittadino. In caso di pregiudizio, in materia di vaccinazione è previsto l’indennizzo (legge 210/1992). La Corte costituzionale (con la sentenza n. 107/2012) ha precisato che in un contesto di irrinunciabile solidarietà l’indennizzo, sia pure in misura non precisamente risarcitoria, è dovuto in tutti i casi di vaccinazioni raccomandate dalle autorità sanitarie a prescindere dall’obbligatorietà del vaccino o dall’esistenza di motivi di lavoro.
Potremmo anche sostenere che non c’è una gradazione di importanza fra vaccini raccomandati e vaccini obbligatori. Il differente regime giuridico non riflette un maggiore o minore interesse pubblico alla loro diffusione a tutela della salute pubblica e privata, ma un diverso atteggiamento strategico della sanità pubblica (informazione e persuasione invece del ricorso a sanzioni di natura amministrativa o penale).
Può trattarsi infatti di vaccinazioni non meno necessarie, né più pericolose, di quelle obbligatorie, dalle quali si distinguono solo per ragioni storiche e non scientifiche. In passato, l’introduzione di alcuni vaccini, l’antipoliomielite ne è un esempio eclatante, non è stata affatto scevra da polemiche o da accuse di inadeguata o frettolosa sperimentazione, come ci ricorda il pediatra Antonio Semprini. Cinquanta bambini restarono permanentemente paralizzati e cinque persero la vita dopo la somministrazione di una dose di vaccino Salk (il cosiddetto “incidente Cutter”). Tuttavia, sia pure dopo una indagine del Epidemic Intelligence Service of the Communicable Diseases Center, fra il 1955 e il 1962, negli Usa vennero iniettate 400 milioni di dosi, con una caduta impressionante del tasso di infezione. Neppure quando al Salk subentrò il vaccino Sabin furono eliminati rarissimi casi di effetti indesiderati (un caso di paralisi su 2,6 milioni di dosi somministrate, comunque in soggetti immunocompromessi).
Basta il contratto di lavoro?
Oggi, piuttosto, è doveroso chiedersi se, nonostante l’assenza di una legge che la stabilisca, l’obbligatorietà della vaccinazione possa essere imposta per effetto del contratto di lavoro. Parte della dottrina giuslavoristica lo considera plausibile sulla base del combinato disposto di due norme di carattere generale che obbligano sia il datore sia il prestatore di lavoro a realizzare le condizioni di massima sicurezza e igiene in azienda a salvaguardia di tutti coloro che vi lavorano. In particolare, l’art. 2087 codice civile, come ha spiegato proprio su queste colonne Pietro Ichino, stabilisce che l’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Sul piano sistematico, del resto, è stato rilevato il collegamento della previsione con le norme costituzionali poste a difesa del diritto alla salute (art. 32 Cost.) e del rispetto della sicurezza e della libertà e dignità umana nell’esplicazione dell’iniziativa economica (art. 41 Cost.).
A questo punto, la domanda da porsi è se all’obbligo del datore di lavoro di adottare una misura corrisponda quello del lavoratore di prestare la propria collaborazione nella sua esecuzione. Qui la regolamentazione si ritrova nell’art. 20 del Testo unico n. 81/2008, con l’obbligo del lavoratore di contribuire all’adempimento delle azioni previste a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
Da queste argomentazioni potremmo far derivare l’obbligo vaccinale per i lavoratori-professionisti del settore scolastico, nel caso specifico a tutela anche dei fruitori del servizio scolastico: gli studenti. Sulla opportunità o necessità di vaccinare questi ultimi pesano, almeno per la stragrande maggioranza di loro, due ordini di problemi: la minore età e la necessità del consenso parentale. Non pare invece rilevante in termini sociali la constatazione clinica che la malattia Covid-19 abbia per loro un decorso decisamente benigno. Soccorre qui però la pronuncia della sentenza 116/2021 dell’8 aprile 2021 della Corte europea dei diritti dell’uomo, quando sottolinea l’importanza e la necessità di raggiungere un alto livello di vaccinazione all’interno della società per proteggere proprio i più deboli, in questo caso gli anziani, ma non solo loro, verrebbe da dire dell’intera collettività. L’obiettivo di una copertura vaccinale sufficientemente ampia corrisponde alle finalità della tutela della salute e della tutela dei diritti altrui. La stessa Corte, peraltro, rileva come la tendenza dei paesi membri sia quella di adottare approcci sempre più prescrittivi, a causa di un calo della vaccinazione volontaria e di una conseguente diminuzione dell’immunità di gregge, parole che risuonano in quelle del presidente dell’Istituto superiore della sanità, Silvio Brusaferro, quando osserva con preoccupazione l’aumento dell’Rt nazionale: “È la popolazione più giovane (10-19 e 20-29) che alimenta la crescita di nuovi casi”. E questo nonostante la raccomandazione da parte di Ema di estendere l’uso del vaccino Spikevax (ex Moderna) anche tra i 12 e i 17 anni.
Del resto, tutti noi abbiamo visto pesantemente limitata la nostra libertà personale. A più riprese nel corso del 2020 e del 2021 a quanti “simil trattamenti sanitari obbligatori” siamo stati sottoposti? Abbiamo dovuto rinunciare alla libera circolazione, ai diritti di associazione, di manifestazione del pensiero e ad altri ancora.
Semmai questo non esima le autorità, soprattutto sanitarie, dal ricorrere a una informazione capillare, che fra l’altro comunichi in modo corretto gli effettivi (e purtroppo sempre presenti) rischi vaccinali nella loro reale incidenza, che invochi, insieme a una maturità collettiva, la piena adesione al principio di solidarietà la cui essenza va considerata, non tanto come risvolto negativo alla concezione individualistica della libertà, bensì come idea più alta, che si fonda sulla comunità e si realizza con l’assunzione di una responsabilità condivisa, in una dimensione di cambiamento e di crescita sociale.
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