Tratto da lavoce.info
di Alessandro Francesco Giudice, Cfo (Chief financial officer, direttore finanziario) di una neonata azienda aerospaziale e partner della società di fractional e interim management YourCFO
Tutto nasce forse dal fair play finanziario, voluto dalla Uefa e che ha finito per concentrare ricavi e titoli in una élite di club. La Superlega avvantaggerà le squadre con brand riconoscibili nel mondo. Un aspetto sul quale le italiane non brillano.
La globalizzazione del calcio
Per capire cosa accade oggi nel calcio vanno collegati i due eventi dirompenti delle ultime settimane: la fine del fair play finanziario e la nascita della Superlega.
Il sistema regolamentare appena sgretolatosi era il risultato di un equilibrio tra club (di diversa forza e estrazione) e regolatori. A sua volta, l’equilibrio era però figlio del modello di business ed è utile notare come ogni club non ne gestisca più uno solo, ma tre o quattro coesistenti nello stesso veicolo giuridico. C’è il core business che genera ricavi (match day, diritti tv, sponsor, merchandising) a fronte di costi correnti, soprattutto per stipendi ai tesserati. Poi c’è il player trading: acquisto e vendita di calciatori con l’obiettivo di generare utili dalle famose plusvalenze. Collaterale a questo è la formazione di giovani calciatori. Infine, da qualche anno, il canale commerciale alimentato dalla tecnologia digitale attraverso gigantesche community di tifosi-follower a cui vendere modelli di lifestyle proposti da brand globali e non necessariamente legati al calcio.
La globalizzazione dei consumi calcistici, con l’apertura dei grandi mercati asiatici e nordamericani, ha quasi decuplicato in venti anni i fatturati aggregati dei club europei: da 2,8 miliardi (2006) a 21,1 (2018). Ma la crescita ha anche scavato una voragine tra i top club e tutti gli altri, come pure tra i campionati Big Five (Spagna, Germania, Italia, Francia, Inghilterra) e le altre leghe nazionali.
Tre fattori hanno allargato il solco: (1) il bacino nazionale del paese di appartenenza, in termini di popolazione e propensione alla spesa; (2) il brand: storia, tradizione ma oggi (soprattutto) numero di follower sui social; (3) la strategia Uefa fondata sulla vendita centralizzata dei diritti Champions ed Europa League e la distribuzione di premi alle squadre partecipanti con meccanismi basati anche sul merito sportivo.
Il modello Uefa
Il modello-Uefa innescava un circolo virtuoso (bacino – competitività – partecipazione Champions – risultati Champions – ricavi – capacità di investimento sul calciomercato – maggiore competitività – allargamento del bacino) che ha tagliato fuori le società meno ricche, concentrando ricavi e titoli in una élite. Ne è conseguita una perdita tangibile di incertezza. Nel decennio 2009-2019 l’82,5 per cento delle semifinaliste Champions League appartiene alla top-10 della Money League, il 97,5 per cento alla top-20 e, in termini geografici, il 97,5 per cento proviene da campionati Big-Five. Nel decennio precedente, il ventaglio delle semifinaliste era decisamente più ampio, includendo club come Leeds, Porto, Valencia, PSV Eindhoven, La Coruna, Villareal, Bayer Leverkusen, Monaco, mentre nel 1989-1999 addirittura una su quattro proveniva da leghe non-Big-Five.
Anche nei campionati, una squadra (la Juve) ha vinto gli ultimi 9 scudetti in Serie A, in Germania il Bayern gli ultimi 8, in Francia 7 degli ultimi 8 il Psg, mentre in Spagna solo un anno, negli ultimi 15, l’Atletico ha spezzato il duopolio Real-Barça.
Il financial fair play fu varato nel 2011 in nome della sostenibilità: arginare la deriva dell’indebitamento finanziario. Ne era cardine il pareggio di bilancio che obbligava i club a equilibrare costi e ricavi, salvo uno sforamento massimo cumulato (30 milioni) in ogni triennio, non considerando come ricavi i contributi dell’azionista.
In realtà, il Ffp aveva molti limiti. Anzitutto, non è detto che il pareggio economico sia funzionale alla creazione di valore finanziario, perciò il Ffp rendeva la vita difficile ai nuovi investitori finanziari. Inoltre, impediva a un azionista facoltoso (il miliardario-tifoso o mecenate, il cosiddetto sugar-daddy) di finanziare il club col proprio patrimonio personale. Così la Uefa contrastava un principio della libera iniziativa: la sovranità degli azionisti nelle scelte di investimento. Una logica simile era però gradita ai top club che vi legavano la possibilità di erigere barriere all’entrata a protezione del loro vantaggio competitivo. A chi, se non ai detentori di posizioni dominanti, può infatti convenire escludere nuovi capitali? L’Uefa si è fatta garante di tali posizioni, promettendo ai grandi la protezione dai newcomer, spostando il fattore critico di successo dalla disponibilità di capitali (nel sistema pre-Ffp) al controllo di un meccanismo di produzione dei ricavi già oliato e funzionante, ma il gioco ha funzionato male. Il Ffp non ha impedito a nuovi azionisti facoltosi (Roman Abramovic, Mansour bin Zayed al Nahyan, il Qatar) di entrare nella élite a colpi di investimenti strabilianti, allargando così la tavola dei commensali, ma alzando l’asticella per tutti.
Quando la Uefa ha elevato sanzioni, lo ha fatto in maniera strabica, colpendo club meno potenti ma preservando sempre, con cavilli e inspiegabili dimenticanze, i player forti. La pandemia ha accelerato la fine di un equilibrio che non garantiva più nessuno, perché non si può imporre per legge il pareggio dei conti a un’industria in sofferenza economica per l’evaporazione dei ricavi. Con visibile disagio, la Uefa ha dichiarato conclusa l’era del break-even: un “liberi tutti” non privo di effetti, che ha accelerato il progetto in cantiere da anni.
L’obiettivo della Superlega
La Superlega non è solo uno show, ma una mossa strategica: disintermediare la Uefa, consegnare la macchina a chi la alimenta con gli investimenti, produrre e (soprattutto) distribuire in proprio le risorse. Allargherà ancora le distanze, ma i promotori la vendono come un win-win game. I club fondatori ne guadagneranno, contando su un pool enorme di ricavi certi da dividere per 15 (non per 48). Ma la crescita dei ricavi conviene, dicono, anche ai club esclusi perché la Superlega distribuirà contributi di solidarietà superiori agli attuali. Se andrà così, l’unica vittima sarà l’Uefa.
Quale modello di business emergerà dalla Superlega? Certamente il blockbuster club, dotato di brand riconoscibile nel mondo, seguito da decine di milioni di follower, capace di far girare un sistema di fatturato indipendente dal risultato sportivo, vero criterio discriminante tra chi è “top” e chi no. Esempio lampante lo United, che assiste da anni ai successi del City senza subire rovesci economici, grazie a una macchina che produce fatturati robusti e diversificati. Se i club italiani non realizzano questa transizione, non ci sono illusioni: saranno relegati nella seconda fascia. In un’industria guidata da unicità e insostituibilità del talento, una fetta consistente dei maggiori fatturati andrà inevitabilmente a remunerare chi fornisce la risorsa più scarsa. In questo caso, i calciatori. Normale aspettarsi un’impennata negli ingaggi e nei cartellini, che alzerà l’asticella del livello di competitività necessario a competere coi grandi. Il bacino di fatturato farà sempre la differenza, perché il calcio tende all’overspending (in ciò raffigurato perfettamente dai criceti di George Akerlof). L’impennata di fatturato sarà un toccasana nel breve, riequilibrando bilanci sofferenti, ma la competitività di medio periodo richiede una tensione al valore che, da sempre, i club italiani trascurano