Tratto da lavoce.info
DI MICHELE BAVARO, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Economia dell’Università di Roma Tre
Quanti sono i lavoratori poveri in Italia? E quali sono le loro caratteristiche? In uno studio l’analisi di un fenomeno in crescita, anche per la deregolamentazione dei contratti. I più penalizzati sono i “soliti noti”: donne, giovani e chi lavora al Sud.
Cos’è la povertà da lavoro
Con il Covid è cresciuta, nel nostro paese, l’attenzione per i livelli dei salari e le disuguaglianze di reddito. Non a caso, proprio di recente, si è ripreso a parlare di salario minimo legale anche nell’ottica di tutelare i cosiddetti working poor, ovvero quei lavoratori che non guadagnano abbastanza da superare la soglia della povertà.
Ma chi sono i working poor e come possiamo definire la povertà da lavoro?
Quando si parla di povertà solitamente si assume che dipenda principalmente dalla mancanza di lavoro. Negli ultimi anni, però, un numero crescente di studi ha provato che anche chi è occupato rischia di cadere in povertà in ragione di redditi da lavoro particolarmente limitati.
Nella letteratura economica e sociologica sono numerosi i tentativi di misurare il fenomeno (vedi Lucifora, 1997, Brandolini et al. 2002 ). Si utilizza di norma la definizione di “in-work poverty” di Eurostat, secondo cui sarebbero in questa condizione i lavoratori – e sono considerati tali coloro che risultano occupati per almeno sette mesi l’anno – che godono di un reddito familiare inferiore al 60 per cento della mediana del reddito disponibile equivalente (calcolato su base familiare). In base a tale indicatore, in Italia nel 2019 era working poor l’11,8 per cento dei lavoratori; la media europea è quasi 3 punti percentuali più bassa.
Lo studio
In realtà, l’in-work poverty è un concetto ibrido che tiene conto sia di caratteristiche familiari – quelle relative al reddito, utilizzate per accertare lo stato di povertà – sia di dati individuali – per accertare lo status di occupato. Sebbene la povertà sia un fenomeno valutato perlopiù a livello familiare, in un progetto di ricerca svolto all’interno del programma Visitinps mi sono posto l’obiettivo di indagare quanti sono i lavoratori (e quali le loro caratteristiche) che, se dovessero vivere unicamente del proprio salario, rischierebbero di ritrovarsi in uno stato di indigenza. In linea con alcuni suggerimenti della letteratura (vedi Raitano et al. In-work poverty in Italy – European Commission) ho trascurato il reddito familiare e definito come “povero da lavoro” chi nell’anno ha un reddito da lavoro non nullo, ma con una retribuzione individuale annua inferiore al 60 per cento di quella mediana.
Questa definizione consente di tenere conto dei due diversi aspetti che influenzano la povertà da lavoro individuale: il basso livello delle retribuzioni per alcuni lavoratori e la ridotta intensità occupazionale, sia in termini di ore lavorate sia in termini di mesi di occupazione.
I dati utilizzati sono quelli degli archivi amministrativi Inps dei dipendenti privati (che coprono il periodo 1990-2017), dei collaboratori (1996-2017), dei professionisti (2000-2017) e dei domestici (1990-2017). Il dataset così costruito esclude quindi, sostanzialmente, solo i dipendenti pubblici (categoria all’interno della quale non dovrebbero essere numerosi i working poor, a parte alcune figure professionali con contratti molto intermittenti), e gli artigiani, commercianti e agricoli (categorie il cui reddito riportato negli archivi amministrativi è spesso distorto dai minimali contributivi e da accentuate sottostime). Si esclude, inoltre, chi nell’anno supera i 65 anni di età. Il numero totale di lavoratori osservati è di 10,5 milioni nel 1990, che diventano circa 16 milioni nel 2017. La banca dati è la più ampia mai utilizzata per studiare il fenomeno delle basse retribuzioni e della povertà da lavoro in Italia.
Per ogni anno, come variabile di osservazione si considera il reddito da lavoro complessivo di un singolo lavoratore – aggregando, dunque, eventuali relazioni lavorative multiple – e a questo si associano le informazioni relative al lavoro principale in corso d’anno, ovvero quello con il salario più alto.
La frammentazione lavorativa
Uno dei cambiamenti più rilevanti riguarda il numero di lavori svolti dal singolo lavoratore: se nel 1990 quasi l’87 per cento dei lavoratori aveva un unico lavoro durante l’anno, nel 2017 la percentuale si riduce al 79 per cento, denotando un rilevante aumento della frammentazione lavorativa negli ultimi trent’anni.
A causa della stagnazione dei salari, la soglia di povertà relativa – pari al 60 per cento della mediana dei salari annuali o mensili a seconda della dimensione di reddito considerata- si è ridotta nel periodo di osservazione, raggiungendo i 10.837 euro annuali e 972 euro mensili nel 2017 (figura 1). Quanto alla povertà assoluta, le soglie definite dall’Istat per i singoli individui nelle diverse macro-aree italiane nel 2017 oscillavano tra i 771 euro al Nord, i 740 al Centro e i 584 al Sud.
Il risultato – preoccupante – può derivare dall’utilizzo di una definizione di occupazione molto ampia (tutti coloro che hanno un reddito da lavoro positivo nell’anno), ma la tipologia di dato amministrativo, che non indica il motivo della non occupazione, suggerisce di non utilizzare il numero di settimane lavorate nell’anno per stabilire se un individuo è occupato o no. Inoltre, si osserva un trend crescente nel tasso di povertà da lavoro: dal 26 per cento nel 1990 al 32,4 per cento nel 2017 nel caso della povertà relativa calcolata sui salari annui, con un quadro simile quando si usa la soglia assoluta. Anche l’intensità della povertà – ovvero quanto si è distanti dalla soglia – è aumentata nel tempo; l’indice di poverty gap, riferito alla povertà relativa, è aumentato dal 13,8 per cento nel 1990 al 17,9 per cento nel 2017.
Quali sono le ragioni dell’incremento nel tempo del numero dei poveri da lavoro in Italia? L’indicatore di povertà adottato nel mio studio è influenzato da due variabili, il salario e il tempo di lavoro.
Sul versante retributivo, ha inciso il cambiamento nella struttura occupazionale avvenuto negli ultimi trent’anni anni con la crescita di settori low-skilled, come quello dei servizi turistici e alle famiglie, nei quali la retribuzione non è sufficiente per uscire dalla spirale della povertà. Inoltre, vanno considerate le numerose riforme di deregolamentazione contrattuale che hanno permesso la moltiplicazione delle tipologie di contratti atipici e, sovente, precari. Un effetto analogo può essere stato esercitato dall’aumento dei contratti collettivi nazionali (854 nel 2020 secondo il Cnel, contro i circa 300 del 2005), che coincide anche con una crescente tendenza al mancato rispetto dei minimi tabellari da essi fissati.
Per quanto concerne i tempi di lavoro, sulla working poverty ha inciso la forte diffusione del part-time. Circa il 30 per cento dei lavoratori nel 2017 è part-time, secondo i nostri dati; il valore è quasi triplicato rispetto ai primi anni Duemila. Anche le riforme del mercato del lavoro (pacchetto Treu, legge Biagi, Jobs act) hanno contribuito a moltiplicare le figure contrattuali ibride, tutte pericolosamente tendenti a non stabilire un orario di lavoro che assicuri un salario soddisfacente. Al riguardo, è significativo il mancato aumento delle ore lavorate dopo la crisi finanziaria malgrado la risalita seppur lieve dell’occupazione (trainata, quindi, dal tempo determinato e dal part-time).
I risultati dell’analisi descrittiva mostrano che è urgente dedicare attenzione alla qualità del lavoro e ai salari, in particolare di donne, giovani e lavoratori del Mezzogiorno.
In questo contesto si inserisce il recente dibattito sul salario legale minimo orario e la connessa polemica, ormai vetusta, sulla sua maggiore o minore efficacia rispetto alla contrattazione collettiva per sostenere i redditi dei lavoratori. I nostri risultati mostrano che la povertà da lavoro dipende non solo dal salario orario, ma anche – e sempre più negli ultimi anni – dal tempo di lavoro. Perciò, sembra cruciale intervenire per incrementare le ore lavorate (tramite un aumento della domanda) e limitare l’abuso di forme contrattuali non convenzionali, con l’obiettivo di rendere meno intermittente il lavoro, soprattutto di alcune categorie.
*L’articolo è estratto da un progetto di ricerca condotto nell’ambito dell’iniziativa VisitInps Scholars dell’Inps. Le opinioni espresse sono esclusivamente quelle degli autori e non riflettono necessariamente quelle dell’Inps.
Questo contributo è apparso contemporaneamente anche sul Menabò di EticaEconomia.
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