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Home Economia

Primo maggio, i problemi del lavoro vanno oltre la pandemia

Redazione di Redazione
3 Maggio 2021
in Economia
Tempo di lettura : 4 minuti necessari
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Vignetta di Cecco

Vignetta di Cecco

 

Tratto da lavoce.info

di Andrea Garnero, economista presso il Dipartimento Lavoro e Affari Sociali dell’OCSE
e Massimo Taddei, Laureato in Economia e Commercio a Genova, con una tesi sulla dimensione economica e sociale della disuguaglianza in Italia

Quest’anno la festa dei lavoratori si festeggia con 900 mila occupati in meno in Italia rispetto all’inizio della pandemia. I problemi, però, non sono iniziati con il Covid e hanno radici più profonde. A partire dalle debolezze strutturali del mercato del lavoro.

È da un po’ di tempo che la dimensione festosa del primo maggio ha lasciato il passo alle preoccupazioni di chi un lavoro non ce l’ha o di chi, pur avendolo, non riesce ad arrivare a fine mese. Questo primo maggio 2021, poi, si caratterizza per una particolare situazione di sospensione tra un mondo pre-Covid-19 che non c’è più e un mondo post-Covid-19 che ancora non c’è e che non sappiamo precisamente come sarà.

In oltre un anno di pandemia il bilancio è molto severo: 900 mila persone occupate in meno tra febbraio 2020 e aprile 2021 (secondo il nuovo metodo di rilevazione Istat). Ma anche chi ha mantenuto il posto ha lavorato meno di quanto facesse prima della pandemia (mentre l’occupazione è calata dell’1,8 per cento tra il quarto trimestre del 2020 e lo stesso periodo del 2019, il numero di ore lavorate è calato del 7,5 per cento). I problemi del mercato del lavoro italiano, però, erano forti anche prima del Covid-19. In questo primo maggio di transizione, quindi, vale la pena provare ad alzare lo sguardo dai numeri della crisi Covid-19 e guardare alle tendenze e alle debolezze di lungo periodo.

La prima è la bassa intensità di lavoro. Non solo un alto numero di inattivi e disoccupati, ma anche poco lavoro per chi un posto ce l’ha. Già prima del Covid-19, le ore lavorate totali, seppure in crescita, erano ancora significativamente sotto il livello pre-crisi finanziaria. Dietro questi numeri si nasconde l’esplosione del tempo parziale involontario, cioè l’impossibilità di trovare un lavoro a tempo pieno, determinata dalla debolezza della struttura economica italiana (e quindi la crescita di lavoretti a basso valore aggiunto) ma anche da cambiamenti strutturali, come un aumento dei servizi (dove, più che nella manifattura, i lavori possono essere spezzettati in brevi fasce orarie) e un aumento della specializzazione del lavoro tra le imprese con alcuni servizi dati in outsourcing per il minimo di ore possibili.

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Altro tasto dolente, i salari. Anche negli anni precedenti alla crisi del 2008, la crescita dei salari reali italiani era inchiodata allo zero virgola e, al netto di un piccolo balzo dovuto a un effetto composizione a cavallo del 2010 (con i lavoratori con salario più basso espulsi dal mercato del lavoro a causa della crisi e quindi un aumento aritmetico della media), la crescita è stata meno della metà di quanto osservato in altri paesi europei. La stagnazione salariale è il riflesso di un sistema di contrattazione che perde i pezzi, di una tassazione che poco premia il lavoro, ma soprattutto di un’economia debole e di una produttività al palo, quando non in calo.

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Con salari che stagnano e ore di lavoro che scendono non sorprende che il numero di persone che pur lavorando sono comunque povere (formalmente gli occupati il cui reddito disponibile è inferiore al 60 per cento del reddito disponibile mediano) sia nettamente aumentato. I poveri tra gli occupati in Italia erano l’8,9 per cento nel 2004, sono saliti al 12,2 per cento nel 2017 e 2018, per poi scendere leggermente nel 2019. Nello stesso periodo, in Unione europea questo indicatore non ha mai superato il 9,6 per cento. Con lo scoppio della pandemia, ci dice l’Istat, l’incidenza di povertà assoluta è cresciuta soprattutto tra le famiglie con persona di riferimento occupata. Si tratta di oltre 955mila famiglie in totale, 227mila famiglie in più rispetto al 2019.

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Tutto il mercato del lavoro italiano soffre quindi di una debolezza strutturale di lungo periodo, riflesso di due decenni di mancata crescita. Sono due i gruppi per cui la preoccupazione è maggiore ma che al tempo stesso rappresentano anche il potenziale di crescita più promettente per l’Italia: i giovani e le donne.

Oltre due milioni di ragazzi tra i 15 e i 29 anni in Italia non studiano, non lavorano e non sono coinvolti in progetti di formazione professionale, con un’incidenza quattro volte più elevata rispetto alla media europea. Pre-Covid-19 si poteva osservare un lento miglioramento, con un dato inferiore a quello pre-crisi a partire dal 2017, ma che, ovviamente, è tornato a salire nel 2020. Risolvere il problema delle opportunità insufficienti per i giovani non è solo un tema sociale e di equità, ma anche di stretta convenienza economica: i ventenni e i trentenni che non lavorano rappresentano una perdita di risorse al picco delle loro forze intellettuali e fisiche, con costi economici e sociali di lunghissimo periodo (una domanda su tutte: chi pagherà le pensioni di questi lavoratori mancati?).

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Un discorso simile vale per l’occupazione femminile: la partecipazione femminile al lavoro in Italia era e rimane tra le più basse in Europa. Prima della crisi, solo il 53,8 per cento delle donne tra 20 e 64 anni aveva un lavoro (contro il 70,1 per cento della media Ue), un dato calato al 52,7 per cento nel 2020 (69,1 per cento in Unione europea). L’Agenda di Lisbona del 2000 prevedeva il raggiungimento di un tasso di occupazione femminile al 60 per cento entro il 2010. Oltre undici anni dopo, l’Italia non ha ancora raggiunto gli obiettivi fissati due decenni fa.

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Possiamo guardare al futuro con maggiore speranza? L’Europa e l’Italia stanno per implementare un piano di rilancio che non ha precedenti nella storia continentale recente. Tuttavia, a parere di molti (sicuramente gli ospiti dell’ultima puntata del podcast “lavoce in capitolo”) il Pnrr non fa abbastanza per donne e giovani. E, comunque, anche secondo le previsioni dello stesso Governo, una piena attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza non permetterà di colmare il differenziale di occupazione con gli altri paesi europei (l’impatto occupazionale stimato dal Ministero dell’Economia è “solo” del 3,2 per cento, cioè circa 750 mila posti di lavoro in più, mentre per raggiungere il livello europeo servirebbero 1 milione e 750 mila occupati in più). Nei prossimi anni, Covid-19 permettendo, tornerà la folla al Concertone, ma difficile che torni la festa.

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