Tratto da lavoce.info
DI ENRICO D’ELIA, ha lavorato al Mef, all’Isae, all’Istat, all’Eurostat e all’Ipi ed ha diretto vari progetti di cooperazione internazionale.
Il pagamento delle esportazioni in rubli preteso da Mosca ha riaperto il dibattito sulle determinanti del valore della moneta. Si regge sulla fiducia dei mercati più che su un sistema di garanzie. Per questo il rublo non sostituirà il dollaro negli scambi.
Torna di moda il Gold Standard?
Una delle contromisure prese dalla Russia per alleviare le sanzioni occidentali è stata la richiesta di ricevere solo pagamenti in rubli in cambio delle proprie esportazioni di gas e petrolio. Nell’immediato, il provvedimento ha riportato il rublo quasi ai valori pre-bellici, poiché ha aumentato artificialmente la domanda della valuta sui mercati e soprattutto perché le autorità russe, in diverse occasioni, hanno ventilato il ripristino della convertibilità della moneta nazionale in oro, come ai tempi del Gold Standard, sancito dagli accordi di Bretton Woods del 1944.
In realtà, anche il valore di scambio della moneta è soggetto alla legge della domanda e dell’offerta: alla lunga, se l’offerta supera la capacità (o volontà) di assorbimento da parte del mercato, qualsiasi moneta si svaluta inesorabilmente. La convertibilità in beni considerati preziosi può rallentare o moderare il processo, ma non può impedirlo, perché prima o poi le riserve nazionali di oro, platino, diamanti o valuta “pregiata” si esauriscono, se servono sempre più contanti per finanziare un deficit della bilancia dei pagamenti e i creditori cominciano a “pretendere” di convertire le monete in loro possesso.
Tanto per dare un’idea della sostanziale esiguità delle riserve delle banche centrali in caso di una eventuale corsa alla conversione delle monete nazionali, gli Stati Uniti, che possiedono le maggiori riserve auree del mondo (8.100 tonnellate, pari a circa 510 miliardi di dollari), potrebbero soddisfare richieste di conversione pari a meno del 2,5 per cento del loro Pil. Non a caso, gli Usa si trovarono in gravi difficoltà alla fine degli anni Sessanta e, a Ferragosto del 1971, furono costretti a sospendere unilateralmente la convertibilità del dollaro. Un paese meno influente sarebbe stato probabilmente dichiarato in default, invece fu siglato lo Smithsonian Agreement, il cambio del dollaro subì solo un lieve peggioramento e il biglietto verde continuò a essere il punto di riferimento per quasi tutti gli scambi mondiali.
La moneta nel giorno della fine del mondo
Gli eventi del 1971 dovrebbero dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, che il valore di una moneta è fondato essenzialmente sulla fiducia, ovvero su un fattore più impalpabile “della materia di cui sono fatti i sogni”, come direbbe Shakespeare. La fiducia deriva dalla speranza che quella moneta sia accettata per acquistare beni e servizi e dipende sia dall’affidabilità della banca che la emette, sia dalla solidità del sistema produttivo che rifornisce il mercato.
C’è un illuminate scritto dell’economista Frank Hahn del 1965 che chiarisce bene il problema, dimostrando che, in ultima analisi, il valore di qualsiasi moneta dipende da quanto manca alla fine del mondo. In quel giorno, infatti, nessuno accetterà moneta in cambio di beni reali, perché tanto sa di non poterne fare alcun uso. Al massimo potrebbe bruciarla al posto del gas, visto che quest’ultimo ha più o meno la stessa resa calorica per chilogrammo delle mazzette di banconote. Ma se questo è vero, il penultimo giorno qualsiasi moneta avrebbe un valore appena superiore a quello successivo, e così via a ritroso fino a oggi. Secondo questa “narrativa”, qualsiasi moneta sarebbe destinata a svalutarsi nel tempo se la data della fine del mondo fosse nota. E ciò vale anche per le criptovalute, come il Bitcoin, che possono essere create solo in quantità limitata.
In parecchi hanno tentato di superare il paradosso (come ricordano Dubey e Geanakoplos). Alcuni si sono appellati al vantaggio della moneta sul baratto anche nell’ultimo giorno, oppure alla eterogeneità della preferenza per la liquidità e delle aspettative in piena Apocalisse. Altri hanno ipotizzando che la banca centrale sia in grado di regolare la circolazione monetaria perfino mentre stanno squillando le trombe del giudizio. Qualcuno ha addirittura immaginato che il fisco pretenderà del denaro contante dai contribuenti fino all’ultimo minuto. La maggior parte degli economisti ha semplicemente rimosso il problema, ipotizzando che il mondo non avrà mai fine o che non sappiamo quando questa verrà.
Il peso della Russia nel commercio internazionale
La recente decisione russa sembra trascurare sia il dibattito teorico sul valore della moneta, sia l’esperienza storica del Gold Standard. Non è bastata neanche la minaccia di dimissioni della governatrice della banca centrale russa, Elvira Nabiullina, per indurre il governo a cambiare idea. Per ora, la realizzazione pratica del nuovo sistema di pagamenti prevede soltanto un doppio conto presso la GazpromBank, uno in rubli e uno in valuta straniera: gli acquirenti pagherebbero in dollari o euro come di consueto e poi acquisterebbero rubli trasferendoli sul conto gemello, da cui Gazprom preleverebbe il corrispettivo. Poco più di una partita di giro e niente che faccia presagire il crollo del dollaro e dell’euro come monete di riferimento, temuto (o auspicato) da alcuni analisti. Perché una simile rivoluzione si verifichi, il rublo dovrebbe guadagnarsi la fiducia dei mercati, a prescindere dalle promesse di convertibilità in oro, e questo impegno potrebbe rivelarsi meno realistico di quello preso dagli Usa nel dopoguerra. Se poi la minaccia di una escalation militare in Ucraina dovesse avvicinare la fine del mondo, il paradosso di Hahn decreterebbe il tracollo del rublo come di tutte le altre valute.
Poco fondata sembra anche l’ipotesi che un rublo “forte”, eventualmente ancorato al prezzo delle materie prime, possa soppiantare il dollaro negli scambi internazionali. Secondo il Wto, infatti, la Russia nel 2019 (prima della pandemia e della guerra in Ucraina) movimentava appena l’1,3 per cento delle importazioni mondiali di merci e, anche se convincesse tutti i suoi stati “satellite” e la Cina a utilizzare il rublo per gli scambi internazionali, l’area del rublo non raggiungerebbe il 13 per cento del totale. Sarebbe comunque paradossale che la Cina, con una quota del commercio pari all’11 per cento, preferisse il rublo al suo yuan. A titolo di confronto, le sole importazioni dell’Unione europea nel 2019 rappresentavano il 29 per cento circa del commercio mondiale (il 17 per cento solo quelle interne all’area) e quelle degli Usa il 13 per cento. Oggi, secondo la Banca per i regolamenti internazionali, l’88 per cento degli scambi di valute coinvolge il dollaro e il 32 per cento l’euro. Quindi neanche l’euro è riuscito a scalzare il biglietto verde dopo venti anni dalla sua introduzione e nonostante la dimensione del mercato europeo. È difficile che ci riesca il rublo, che fa capo a una economia con un Pil dell’ordine di quello della Spagna.
*Le opinioni espresse in questo articolo non coinvolgono in alcun modo le istituzioni con cui collabora l’autore.
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