Tratto da lavoce.info
DI ANNA SOCI, già professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna
Per limitare le disuguaglianze economiche è meglio intervenire sui redditi di mercato o sui redditi disponibili? La redistribuzione è costosa, in termini economici e sociali. Ma il capitalismo di oggi ha bisogno di regole e maggiore intervento pubblico.
Risposte alla disuguaglianza in crescita
Per arginare l’enorme crescita delle disuguaglianze economiche, si può agire sul reddito distribuito nel processo di produzione e scambio prima che qualunque intervento pubblico venga ad alterarlo (il reddito di mercato) oppure sul reddito di cui effettivamente si dispone dopo che lo stato abbia agito da re-distributore (il reddito disponibile). Su quale dei due redditi è più opportuno intervenire? La risposta alla domanda apre a scenari molto diversi tra loro nonché a differenti categorie interpretative del capitalismo di oggi.
Molte sono le statistiche per i vari paesi sulla disuguaglianza economica prima e dopo la re-distribuzione e molti gli studi sulla sua riduzione attraverso le politiche redistributive, tuttavia il dibattito su quale categoria di reddito agire per raggiungere l’obiettivo in modo efficace ed efficiente è ai suoi inizi.
Nell’insegnarci che il guardare agli andamenti delle quote distributive funzionali (salari, profitti e rendite) ci permetteva ben scarne conclusioni sulle disuguaglianze economiche, Anthony Atkinson – il grande padre degli studi sulla disuguaglianza – ci ha implicitamente sospinti a dare maggiore attenzione al concetto di reddito disponibile, e, dunque, alla redistribuzione. Vi è un soggetto terzo, lo stato, cui attribuire il compito di raddrizzare le ingiuste sorti distributive del processo di produzione e scambio, generatore di disparità: forte progressività del sistema fiscale, generose elargizioni di welfare, interventi a sostegno delle fasce a più basso reddito, e altro.
Ben venga tutto ciò. Gli effetti delle politiche redistributive sono ampi ed evidenti. Ovunque l’indice di Gini (il più usato indicatore di disuguaglianza) calcolato sul reddito disponibile è significativamente più basso del Gini derivante dai redditi pre-redistribuzione: nel 2020, per l’Italia esso è stato addirittura inferiore di oltre 14 punti passando da 0,44 a 0,30 (un valore, tuttavia, ancora alto, dal momento che in letteratura si considera tale un valore dell’indice Gini di oltre 0,28). Grande, dunque, è stato l’intervento redistributivo, ma grande rimane ancora la disuguaglianza economica. E forse è proprio da questo dato che occorre partire per eventualmente rivedere un orientamento di policy che mostra almeno due seri inconvenienti. Da un lato, l’azione re-distributiva avviene all’interno di un delicato oggetto quale il bilancio pubblico. Delicato perché con esso si sfiora il tema pericoloso del disavanzo (la globalizzazione genera tax-competition indebolendo la leva delle entrate) e del conseguente aumento del debito, vincoli ora più attenuati dalle circostanze pandemiche ma di certo non scomparsi e pronti a ripresentarsi. Dall’altro, gli effetti dell’azione redistributiva – pur consistente – dipendono in misura non trascurabile dall’avere a monte una distribuzione dei redditi di mercato fortemente disuguale. Dunque, una rilevante manovra redistributiva può risultare vanamente onerosa.
Ma non è solo in gioco un equilibrio di bilancio. È in gioco anche una possibile incrinatura nell’altrettanto delicato rapporto tra cittadini e istituzioni. Una tendenza al livellamento da perseguirsi con riaggiustamenti successivi al momento della formazione dei redditi di mercato può essere vista come “ingiusta”, se non addirittura punitiva, da parte di chi ha messo nella propria attività produttiva abilità, coraggio, senso della sfida, assunzione del rischio. E questo sia da parte di coloro cui viene tolto, sia da parte di coloro cui viene dato, ma in misura che non lo differenzia da altri percepiti come “usurpatori”. E la tassazione della ricchezza – variabile che va oltre la dinamica reddito di mercato-reddito disponibile ma il cui possesso da parte della popolazione è ancora più disuguale – può andare nella stessa direzione: la ricchezza si origina a partire dal risparmio, variabile nobile che richiama atteggiamenti parsimoniosi di proiezione al futuro, decisioni che scavano nelle pieghe di ognuno di noi evocando i nostri sentimenti verso la discendenza. Keynes stesso parla di avarizia e orgoglio tra le spinte al risparmio, atteggiamenti squisitamente soggettivi e fortemente motivazionali. In questo senso, anche la ricchezza ereditata – di cui viene da più parti proposta una sensibile tassazione – diventa un tema delicato, poiché la trasmissibilità dei patrimoni è un sottoprodotto delle stesse ragioni per cui si risparmia. Dunque, grandi sforzi di policy potenzialmente suscettibili di generare divisione e frantumazione sociale. Un’opzione costosa.
Con questo vogliamo forse dire che non vi è opzione e che non si debba perseguire una tendenza al livellamento tra chi ha grandi risorse e chi ne ha di risibili? Al contrario, vogliamo solamente dire che sarebbe ora di volgere uno sguardo fermo a ciò che succede nella sfera della produzione e dello scambio, impedendo sul nascere che si formino disuguaglianze eccessive, fuori da ogni accettabile quadro di riferimento: “The policies of the future go in another direction, towards a more equitable distribution of endowments” (“Le politiche del futuro vanno in un’altra direzione [rispetto alle politiche redistributive], verso una più equa distribuzione della capacità produttiva”) dice Branko Milanovic.
Per ragioni di spazio non si può qui fare altro che richiamare le ampie riflessioni in ambito storico/politologico ed economico sul capitalismo odierno e sulla necessità di una sua revisione, e ricordare le iniziali e generali proposte sul come intervenire (qui, qui, qui, qui e qui). In sostanza, non si tratta certo di recedere da un ruolo attivo dello stato, ma modificarne la direzione, peraltro senza ritenere che tale opzione sia meno costosa, ma solo che sia assolutamente necessaria per “Salvare il capitalismo: per molti, non per pochi”, per dirla con Robert Reich. Ovvero, addolcire quel capitalismo da rapina che è diventato il sistema produttivo, intervenendo direttamente sulla formazione dei redditi di mercato senza per questo abdicare alla funzione redistribuiva, ma al contempo non caricandola del peso enorme della cura delle disuguaglianze. “la ricerca e le discussioni sulle politiche dovrebbero, in futuro, concentrarsi sulla pre-distribuzione tanto quanto sulla redistribuzione” (Bozio et al., p. 34), ovvero un doppio pedale di freno: uno da tenere sempre abbassato – quello che mira a limitare eccessive disuguaglianze nei redditi di mercato – e uno da modulare – quello volto a rendere più simili i redditi disponibili.
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