Tratto da lavoce.info
DI MASSIMO TADDEI, editor e responsabile del desk del sito a lavoce.info.
Raggiunto l’accordo sulla direttiva Ue per “un equo salario minimo”. Non significa l’introduzione di una stessa misura in tutti i paesi Ue. Permetterà però di discutere di riduzione di povertà e disuguaglianze salariali.
L’accordo a livello europeo
Il Trilogo tra Commissione europea, Parlamento europeo e Consiglio europeo ha annunciato che è stato raggiunto un accordo sulla proposta di direttiva su “un equo salario minimo”. È arrivata dunque l’ora di un salario minimo europeo come alcuni partiti anche in Italia vorrebbero? No. Ma è il primo passo di un processo più lungo che, però, mette in chiaro cosa l’Unione europea non farà: non introdurrà un salario minimo uguale in tutti paesi; non interverrà nel processo decisionale nazionale. E, infine, la Commissione non imporrà la definizione di un salario minimo per legge in quei paesi dove i minimi sono stabiliti nei contratti collettivi.
Che farà l’Unione quindi? Gli obiettivi, definiti nel documento della Commissione europea che aprì il dibattito sul tema, sono tre. Il primo è quello di assicurare che i salari minimi siano “adeguati” in tutti i paesi europei. Definire qual è il livello adeguato di un salario minimo non è un esercizio semplice. E non è nemmeno un esercizio statistico, ma una scelta sommamente politica.
La proposta di direttiva prevede che i paesi con un salario minimo debbano mettere in piedi un sistema per la governance e l’aggiornamento del salario minimo. Si tratta di impostare criteri chiari per il salario minimo (incluso il potere d’acquisto tenendo conto del costo della vita, il livello, la distribuzione e la crescita dei salari e la produttività nazionale). Andranno anche utilizzati riferimenti indicativi per il livello del salario minimo. Nel documento che aveva aperto alle consultazioni, la Commissione fa riferimento alla soglia di povertà, cioè il 60 per cento del reddito familiare mediano disponibile. Nella conferenza stampa del 7 giugno, il Commissario europeo per il lavoro e i diritti sociali e i relatori del Parlamento hanno fatto esplicito riferimento al 60% del salario mediano, ma come riferimento indicativo e non cifra imperativa. Per la maggior parte dei paesi europei si tratterebbe di un aumento molto sostanziale del salario minimo attualmente in vigore. Il livello del salario minimo dovrà poi essere periodicamente aggiornato, stabilendo nuovi livelli anche attraverso il dialogo con le parti sociali all’interno di organi istituiti per lo scopo.
Nonostante i riferimenti al salario minimo, la direttiva si impone come obiettivo anche l’aumento della copertura della contrattazione collettiva, dal momento che, nei paesi in cui la copertura è maggiore, tende a esserci una quota inferiore di lavoratori a basso reddito. In particolare, si richiede agli Stati membri con una copertura inferiore all’80 per cento dei lavoratori dipendenti di raggiungere quella soglia. Si capisce quindi che, da una parte, si vuole spingere per il salario minimo, ma, dall’altra, si tutela il sistema di contrattazione su cui si reggono paesi che non hanno il salario minimo come l’Italia. Questo dualismo è anche la dimostrazione che salario minimo e contrattazione collettiva possano, e, anzi, è preferibile debbano, coesistere, andando contro a dichiarazioni come quelle del Ministro Brunetta.
A differenza di quanto ci si poteva aspettare dai discorsi della presidente Ursula von der Leyen, nel documento presentato due anni fa dalla Commissione, così come nella proposta di direttiva, non c’è un riferimento esplicito al fatto che i salari minimi debbano essere applicati a tutti i lavoratori. La clausola sarebbe stata inaccettabile per i paesi nordici, dove una piccola fetta di lavoratori è esclusa dalla contrattazione collettiva perché non iscritta a un sindacato: sono le stesse organizzazioni sindacali che vogliono lasciarla esclusa, proprio per dare gli incentivi necessari a sindacalizzarsi ed evitare problemi di free-riding, cioè beneficiare della copertura sindacale senza pagarne i costi.
Cosa è cambiato
Quando venne presentato il documento della Commissione europea, i sindacati europei avevano lamentato la mancanza di dettaglio, ma in realtà la Commissione, prima dei dettagli, rivolse alle parti sociali una domanda di fondo: è utile che l’Unione europea intervenga sul tema? A due anni di distanza, possiamo dire che il dibattito sul salario minimo ha trovato sempre più spazio e il raggiungimento di questo accordo mostra come la volontà politica per una regolamentazione a livello europeo ci sia, anche se l’intesa sembra lasciare larghissima discrezionalità agli Stati membri. Non è detto quindi che i sei paesi, tra cui l’Italia, in cui non esiste salario minimo arrivino a introdurlo a seguito di questa direttiva, né che gli Stati membri con salario minimo molto basso alzeranno la soglia.
Comunque vada, l’accordo marca un cambio di rotta significativo nelle priorità di Bruxelles (da “moderazione salariale” si è passati a parlare di “salari equi”) ed è l’occasione per riflettere su come meglio raggiungere gli obiettivi di riduzione della povertà e delle disuguaglianze salariali. Il salario minimo può essere un elemento della risposta in alcuni paesi. Non in altri. E comunque non l’unico. La speranza è che non diventi il solo elemento su cui cristallizzare il dibattito.
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