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Home Economia

Economia. Salari e recupero dell’inflazione: il rebus dell’Ipca

Redazione di Redazione
24 Febbraio 2022
in Economia
Tempo di lettura : 4 minuti necessari
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Vignetta di Cecco

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Tratto da lavoce.info

 

 

DI GIOVANNI PIGLIALARMI, ricercatore (RtdA) presso il Dipartimento di Economia “M. Biagi” dell’università di Modena e Reggio Emilia
E LUCIA VALENTE, professore Ordinario di Diritto del lavoro nel Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche della Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza

Non sempre si riesce ad adeguare le retribuzioni all’aumento effettivo del costo della vita. Lo strumento elaborato dalle parti sociali, l’indice Ipca, ha infatti il difetto di non registrare la dinamica dei prezzi dei beni energetici importati.

Il prezzo dell’energia importata e il costo della vita

Quando nel 2008 Cgil, Cisl e Uil decisero di presentare con un documento unitario una proposta per la riforma della struttura della contrattazione da discutere con le associazioni datoriali e con il governo, proposero di agganciare l’inflazione a criteri credibili e condivisi per una efficace politica dei redditi. E suggerirono di utilizzare un metodo di “inflazione realisticamente prevedibile” supportato da parametri ufficiali che consentisse di superare il sistema dell’inflazione programmata introdotto dal protocollo Ciampi del 1993. In quel contesto, venne suggerito di utilizzare indicatori univoci, quali il deflatore dei consumi interni o l’indice armonizzato europeo corretto con i pesi dei mutui; le stesse confederazioni sindacali proposero anche che al realizzarsi di eventuali differenziali inflazionistici si dovessero attivare meccanismi di recupero certi dell’inflazione.

Un anno dopo, nel 2009, Confindustria, Cisl e Uil firmarono il nuovo accordo interconfederale sugli assetti contrattuali. La Cgil, presente alle trattive, non firmò né l’accordo quadro con il governo, né l’accordo interconfederale, perché ritenne, con una sorta di preveggenza, che il nuovo modello di recupero dell’inflazione non garantisse una sufficiente tutela dei salari.

Rinnovi triennali e indice Ipca

Oltre alla durata triennale dei contratti collettivi nazionali e decentrati, quell’accordo interconfederale individua il nuovo indice di adeguamento delle retribuzioni al costo della vita sostitutivo dell’inflazione programmata: l’indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo (Ipca) depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati. L’accordo affida l’elaborazione della previsione dell’Ipca a un istituto terzo: l’Istat. Eventuali scostamenti significativi tra l’inflazione prevista e quella reale effettivamente osservata dall’Istat possono essere recuperati successivamente qualora siano verificati da un comitato paritetico interconfederale, entro la vigenza di ciascun contratto nazionale in termini di variazione in aumento dei minimi. Ma entrambi gli indici sono sempre considerati al netto dei prodotti energetici importati.

Ora si dà il caso che proprio la dinamica dei prezzi energetici importati stia erodendo il potere d’acquisto dei lavoratori e l’Ipca, che non consente di tenerne conto in sede di rinnovo del Ccnl, non garantirà aumenti salariali capaci di coprire l’inflazione reale.

Leggi anche: Bce, la nuova strategia in pratica
Cosa fare? È evidente che al tavolo dei rinnovi contrattuali i sindacati proveranno a recuperare tutto lo scostamento registrato nel periodo di vigenza del contratto, andando anche oltre qualora il contratto sia già scaduto da tempo. Ma è altrettanto evidente che le associazioni datoriali non saranno disposte ad accollarsi tutto il peso dell’inflazione reale maturata oltre il triennio di vigenza contrattuale e vorranno limitarsi a riconoscere una mera indennità di vacanza contrattuale non necessariamente commisurata all’effettivo prolungamento delle trattative.

Il governo interviene sul caro bellette ma, a quanto pare, le misure non saranno sufficienti a garantire né i lavoratori, né le imprese, costrette a subire una crisi energetica senza precedenti. Serve un coordinamento più stretto tra governo, sindacati e associazioni datoriali, una sorta di cabina di regia permanente, per monitorare l’andamento della crisi energetica sui rinnovi contrattuali e per valutare misure redistributive, anche fiscali, per recuperare gli eventuali scostamenti e compensare quello che le parti non riescono a ottenere con il negoziato.

Cosa emerge da alcuni recenti rinnovi contrattuali

Da un’analisi degli ultimi rinnovi contrattuali, si vede come il sindacato negozi livelli salariali superiori rispetto all’andamento dell’Ipca tra il 2022 e il 2025, con l’evidente obiettivo di non far perdere il potere di acquisto alle retribuzioni dei lavoratori. Ad esempio, nel caso del rinnovo del Ccnl orafi, firmato il 23 dicembre 2021, i lavoratori percepiranno nel periodo considerato una retribuzione maggiorata di più di mille euro rispetto all’andamento dell’Ipca (vedi figura 1 che illustra l’andamento della retribuzione di un lavoratore inquadrato al II livello).

La medesima dinamica si registra per i lavoratori del settore multiservizi. Anche questo Ccnl, rinnovato l’8 giugno 2021, dopo ben undici anni, prevede livelli salariali superiori all’andamento dell’indice Ipca (vedi figura 2 che illustra l’andamento della retribuzione di un operaio inquadrato al III livello del Ccnl multiservizi (Fise)).

I lavoratori del settore dell’igiene ambientale, all’opposto, rischiano di non recuperare tutta l’inflazione poiché il negoziato per il rinnovo del contratto collettivo, concluso il 9 dicembre 2021, non ha affrontato il nodo del trattamento economico, riconoscendo per il solo 2022 un’indennità una tantum di 500 euro (vedi figura 3 che illustra l’andamento della retribuzione di un lavoratore inquadrato al livello 3 A). Le parti si sono impegnate ad affrontare il tema in un successivo incontro in vista dell’unificazione della regolazione delle società private e pubbliche del settore.

Da questi primi rinnovi contrattuali, dal contenuto salariale piuttosto altalenante, si ricava che l’Ipca è uno strumento insufficiente a garantire l’adeguamento del livello retributivo minimo al costo della vita, anche a causa del mancato rispetto del termine triennale per i rinnovi contrattuali. L’indice costituisce solo una base di partenza per il negoziato, i cui esiti dipendono dal settore o categoria di riferimento e dalla durata delle trattative per il rinnovo del contratto collettivo. Il mancato rispetto del termine triennale per il rinnovo dei Ccnl, che in alcuni settori viene stipulato anche con dieci anni di ritardo, incide sull’adeguamento del trattamento economico minimo (Tem) e rende più difficile il recupero degli scostamenti registrati tempo per tempo dall’Ipca.

Va anche detto che il meccanismo basato sull’aggancio delle retribuzioni all’Ipca perfeziona quello dell’inflazione programmata introdotto dal protocollo Ciampi del 1993 con il quale le parti hanno evitato il ripetersi del fenomeno che si era verificato negli anni Settanta, quando il meccanismo della “scala mobile” – fondato su un indice Istat del costo della vita molto sensibile alle variazioni del costo della benzina – aveva causato una forte fiammata inflazionistica. Bene, dunque, che oggi l’adeguamento dei livelli salariali all’inflazione non sia l’effetto di un meccanismo automatico, ma sia oggetto di una concertazione tripartita; purché la concertazione avvenga tempestivamente e sia efficace, pur senza determinare attese inflazionistiche ulteriori, che danneggerebbero per primi i titolari di redditi fissi.

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