Tratto da lavoce.info
DI ANDREA GOLDSTEIN, senior Economist all’OCSE
E MAURO PISU, senior Economist dell’Economics Department dell’Ocse
In molti paesi cresce l’insofferenza verso la globalizzazione, ritenuta responsabile di varie problematiche, spesso dovute a norme nazionali. Eppure, molte sfide si affrontano meglio a livello globale, purché lo si faccia con regole chiare ed efficaci.
L‘importanza del commercio internazionale
Il commercio internazionale di beni ha ripreso a crescere rapidamente dopo il crollo nel secondo trimestre del 2020 dovuto alla pandemia (-10 per cento rispetto al quarto trimestre del 2019) e nei primi tre mesi del 2022 è stato circa 8 per cento al di sopra del livello pre-pandemia (Cpb 2022). Le catene globali del valore, che pure sono state danneggiate dal Covid-19, hanno giocato un ruolo fondamentale per superare l’emergenza e anche laddove la natura globale della segmentazione e specializzazione dei processi industriali ha generato obiettive criticità, come nella farmaceutica, è difficile immaginare che lo sviluppo e produzione a tempo di record dei vaccini contro il virus sarebbe stato possibile senza catene di valore regionali. Inoltre, l’evidenza empirica suggerisce che paesi e regioni più integrati nell’economia globale, pur essendo esposti a rischi esterni, si riprendono più rapidamente da crisi economiche e catastrofi naturali.
Tutta colpa della globalizzazione?
Questi dati e considerazioni mostrano la resilienza e capacità di adattamento degli scambi internazionali e delle catene globali di valore e il loro contributo alla ripresa economica post-Covid. Se ne potrebbe concludere che la globalizzazione (riferendoci con questo termine allo scambio di beni, servizi e capitali tra vari paesi) è in piena salute e che i suoi effetti sono sempre e comunque positivi e ben accetti. Sarebbe, a dire il vero, una conclusione semplicistica e anche contro-producente.
Un crescente disagio si manifesta in molti paesi e strati sociali verso la globalizzazione, ritenuta responsabile di disuguaglianza, impoverimento delle zone rurali e delle isole, de-industrializzazione, evasione fiscale, riciclaggio internazionale di denaro sporco, perdita di sovranità economica e politica. Si tratta di problemi reali, non immaginari, documentati da molti studi e in diversi paesi.
I flussi finanziari verso i paradisi fiscali sottraggono importanti risorse ai governi nazionali e troppo spesso proteggono guadagni illeciti. La globalizzazione è poi associata all’immigrazione irregolare e all’aumento percepito della criminalità. Improvvisi e massicci flussi migratori, anche se provenienti da paesi con valori religiosi e norme comportamentali simili, possono creare problemi di integrazione non semplici da superare.
Ma non è che le criticità siano il frutto del fallimento di politiche nazionali, più che della globalizzazione in sé stessa? I risultati variegati in molte di queste dimensioni dei paesi altamente globalizzati indicano che le politiche nazionali hanno un ruolo fondamentale per sfruttare appieno i benefici e limitare gli effetti nefasti della globalizzazione. Per esempio, i livelli di diseguaglianza e povertà rimangono assai diversi anche tra i paesi europei, malgrado siano soggetti a un’unica politica commerciale gestita a livello Ue. Differenti politiche sociali, del lavoro, di ricerca e sviluppo e i programmi per zone geograficamente svantaggiate fanno la differenza tra i vari paesi e sono alla radice dei diversi risultati dei paesi Ue in termini di povertà, occupazione, innovazione e sviluppo delle aree rurali. Anche la capacità di ricevere e integrare gli emigrati differisce notevolmente tra vari paesi in funzione delle politiche nazionali, come per esempio la disponibilità di corsi linguistici, le qualità delle politiche attive del lavoro e il funzionamento del mercato del lavoro. In generale, i paesi che hanno difficoltà a offrire servizi pubblici celeri e di alta qualità ai propri cittadini hanno anche difficoltà a integrare gli immigrati e viceversa.
La necessità della regolazione
L’importanza delle politiche nazionali non deve però far dimenticare che la globalizzazione ha anche bisogno di regole internazionali da negoziare in molti sedi. Per esempio, assicurarsi che i flussi finanziari a livello globale riflettano scelte operative delle imprese che producano benefici economici a larga scala richiede una più forte cooperazione a livello internazionale per garantire che i paradisi fiscali e le agevolazioni che molti paesi permettono non alimentino invece l’evasione e l’elusione fiscale (oltreché agevolare il riciclaggio di denaro sporco).
Sfortunatamente, la globalizzazione delle regole ha progredito più lentamente della globalizzazione dei mercati, come ha mostrato ancora pochi giorni fa lo stallo della dodicesima riunione ministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio, che si è tenuta a metà giugno. Il ritardo, accompagnato dalla percezione che le regole, anche quando vengono adottate, sono opache, inique e rigide, è alla radice del protezionismo e del “nativismo” che si sta affermando in molti paesi.
Ma non c’è nessuna fatalità. Per esempio, l’accordo raggiunto nel 2021 in sede Ocse per combattere l’erosione della base impositiva e il profit-shifting mostra come processi inclusivi e trasparenti (l’accordo Beps è stato negoziato e sottoscritto da 141 paesi, un numero più che triplo rispetto ai membri Ocse), anche su questioni tecnicamente complesse, possano produrre frutti importanti. La prevenzione di future pandemie e la lotta al cambiamento climatico sono problemi – insieme ad altri, come la raccolta e l’utilizzo di grandi quantità di dati (anche personali) che l’intelligenza artificiale permette – che necessitano di più – e non di meno – globalizzazione e di un approccio globale, inclusivo e trasparente per determinarne le regole.
Come ha sostenuto il presidente del Consiglio, Mario Draghi, nel suo intervento d’apertura della riunione ministeriale del Consiglio dell’Ocse del 9 giugno, presieduta quest’anno dall’Italia, “for our efforts to be fully effective, they must be sustainable over time and bring on board emerging and developing economies” (“perché i nostri sforzi siano pienamente efficaci, devono essere sostenibili nel tempo e coinvolgere le economie emergenti e in via di sviluppo”). L’apertura verso altre economie e società e il dialogo internazionale per trovare regole chiare ed eque, insieme a politiche nazionali efficaci, rimangono il punto chiave per la risoluzione dei problemi delle società moderne.
*Le idee e le opinioni espresse in questo articolo sono da attribuire esclusivamente agli autori e non comportano alcuna responsabilità per le istituzioni di appartenenza.
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