Tratto da lavoce.info
DI RONY HAMAUI, professore a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e presidente di Intesa Sanpaolo ForValue
L’inflazione rimane alta negli Stati Uniti e continua a crescere in Europa e in tanti altri paesi. Forse nei prossimi mesi cominceranno a rallentare i prezzi delle materie prime energetiche e alimentari, ma le banche centrali non cambieranno politica.
Perché resterà a lungo
L’inflazione si mantiene persistentemente alta negli Stati Uniti, in continua crescita in Europa così come in moltissimi paesi in via di sviluppo. Anche nelle nazioni che hanno intrapreso da più tempo politiche monetarie restrittive, quali il Brasile, il Cile, la Polonia e l’Ungheria, la corsa al rialzo dei prezzi non accenna a diminuire. Eppure, il costo delle materie prime agricole e non agricole ha conosciuto negli ultimi mesi un notevole raffreddamento, molte strozzature nelle filiere sono in via di risoluzione e il prezzo dei noli è fortemente calato. Possiamo allora domandarci quanto a lungo è destinato a durare il fenomeno inflazionistico.
Un recente lavoro di tre economisti dell’università del Michigan, dopo aver analizzato a fondo un vasto numero di episodi inflazionistici occorsi negli ultimi trent’anni in 55 paesi sia sviluppati che in via di sviluppo, giunge alle seguenti conclusioni:
gli episodi di forte inflazione tendono a essere persistenti, poiché una volta raggiunto il picco il tasso di crescita dei prezzi rimane a lungo consistente. Inoltre, il periodo di disinflazione, che in media dura tre/quattro anni, è molto più lungo di quello di accelerazione dei prezzi;
gli episodi di forte inflazione sono per lo più inattesi. Tuttavia, le aspettative a breve si adeguano rapidamente al nuovo contesto;
nei mesi successivi al sorgere dell’inflazione anche le aspettative di crescita dei prezzi a lungo termine tendono a crescere ma solo leggermente e per qualche anno rimangono su tali maggiori livelli;
infine, i tassi d’interesse nominali salgono, ma meno velocemente dei tassi d’inflazione, così i tassi reali rimangono negativi. Anche le politiche fiscali tendono a non diventare particolarmente restrittive.
Olivier Blanchard, in una nota apparsa sul sito del Peterson Institute for International Economics , ci ricorda che nel 1975 la Fed impiegò otto anni per riportare l’inflazione al 4 per cento, con tassi reali al 13 per cento e una crescita della disoccupazione del 6 per cento più alta rispetto al valore iniziale.
L’atteggiamento delle banche centrali
La figura 1 sembra confermare come, seppure in un contesto diverso, il recente episodio inflazionistico ricalchi quanto successo a metà degli anni Settanta. Nonostante i ripetuti rialzi dei tassi nominali, i tassi reali rimangono negativi, mentre le aspettative inflazionistiche si sono alzate anche se di poco. Certo, oggi le banche centrali hanno un grado d’indipendenza molto maggiore e il mercato del lavoro, almeno in Europa, non sembra in grado di innescare una spirale salariale come quella di cinquant’anni fa. Qualche osservatore ha persino avanzato l’ipotesi che l’inflazione attuale sia alimentata più dai profitti che dai salari, che anche negli Stati Uniti faticano a stare dietro all’aumento dei prezzi. Ovviamente, col tempo, la capacità delle imprese di aumentare i loro prezzi è destinata a ridursi con il prevedibile calo della domanda. Oggi, tuttavia, il calo è attutito dall’accumulazione del risparmio realizzato durante la pandemia grazie alle generose politiche monetarie e fiscali, ma presto i consumi inizieranno a scendere, come già avviene in alcuni settori, per esempio quello immobiliare.
Tuttavia, l’idea che l’inflazione attuale sia il risultato di fattori speciali (pandemia, vincoli all’offerta, guerra in Ucraina, prezzi dei prodotti energetici e altro) che forse svaniranno presto riportandola rapidamente sui livelli ritenuti accettabili, risulta altamente improbabile. Forse è altrettanto utopistico sperare che sia sufficiente riportare i tassi di interesse ufficiali al loro livello neutrale.
Tutto questo spiega la determinazione con la quale le banche centrali restringono la propria politica monetaria, soprattutto la Fed che ha dichiarato che continuerà a farlo sino a quando l’inflazione non mostrerà qualche segno di rallentamento.
È probabile che i prezzi al consumo al lordo delle materie prime energetiche e alimentare nei prossimi mesi comincino a rallentare, ma è altrettanto plausibile che la core inflation, a cui le autorità monetarie guardano con maggior attenzione, diminuisca molto lentamente. Ecco perché è difficile che la salita dei tassi d’interesse possa cessare prima che l’economia cada in recessione. Purtroppo, come diceva l’economista Michael Bruno: “L’inflazione somiglia al fumo: una volta che si supera una soglia minima, è molto difficile sfuggire a una sua dipendenza”. Se non con grande determinazione e parecchi sacrifici.
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