Tratto da lavoce.info
DI MARIANO BELLA, direttore dell’Ufficio Studi Confcommercio.
E PASQUALE MIRANTE
La retorica dell’estensione infinita dei diritti contrasta con una insufficiente produzione di risorse per renderli esigibili. L’analisi dei discorsi di insediamento dei presidenti del consiglio mostra come anche la politica trascuri l’etica dei doveri.
Il circolo promessa-consenso-promessa
Alzi la mano chi si dichiara contrario all’estensione dei diritti: di vecchi diritti a nuovi intestatari, di nuovi diritti a chiunque o a una frazione di popolazione.
Nella vulgata oggi largamente prevalente in Italia, per estensione dei diritti si intende non soltanto una nuova eleggibilità prettamente giuridica, ma bensì una sorta di estensione dell’estensione, nel senso di ampliamento del godimento di qualcosa di natura reddituale o patrimoniale già oggetto di un riconosciuto diritto. Quindi, la popolazione si sente intestataria di un “diritto” a non soffrire dell’inflazione, di migliorare la qualità e il valore dell’ambiente domestico, di avere comunque un reddito corrente più elevato e una prospettiva pensionistica fatta di un minor numero di anni di contribuzione e un numero più alto di anni di godimento. Tutto ciò a prescindere completamente dalla valutazione delle proprie azioni in rapporto al raggiungimento di quegli obiettivi, appunto fasciati, anzi corazzati, dal concetto di “diritto ad avere”.
Restando su una dimensione superficiale dell’analisi, appunto come questa, si può facilmente osservare che se l’andazzo è quello sopra descritto, la politica smette di esercitare una leadership per assumere il ruolo di follower, rispetto all’opinione pubblica (più pubblica che opinione, si potrebbe osservare assieme a Giovanni Sartori). In pratica, la politica dice e fa ciò che presuppone vogliano coloro che rappresentano la propria constituency.
La politica promette e le persone chiedono (di più e a prescindere). Per la politica è la situazione ideale: promette di più, rinsaldando il circolo promessa-consenso-promessa. Promessa di più diritti, per molti se non per tutti. Senza riferimento a merito o meriti, senza menzione di qualche traccia residua di dovere o doveri.
L’analisi dei sessantotto discorsi di insediamento
Per verificare che l’impianto su esposto non sia del tutto vago e disancorato dalla realtà, abbiamo verificato il numero di volte che le parole merito/i, dovere/i, diritto/i ricorrono nei (sessantotto) discorsi dei presidenti del consiglio in Italia dal 1946 a oggi. Naturalmente dai conteggi è stato espunto l’utilizzo di quelle parole con significati del tutto diversi rispetto alla nostra analisi: per esempio, nella frase “in merito alla questione del” la ricorrenza della parola “merito” non è rilevante e quindi non è stata conteggiata).
In quasi ottant’anni, il concetto di dovere è scomparso dalle sedi istituzionali e, nella stragrande maggioranza dei casi, la parola indicava una generica obbligazione dell’esecutivo o della politica nei confronti dei cittadini. Che ciò abbia indotto l’analoga scomparsa del termine, e del concetto che designa, dal dibattito pubblico o che, invece, sia la sua scomparsa dalla vulgata comune che l’abbia espunto dai discorsi istituzionali, è questione che non siamo in grado di trattare. Congetturare che vi sia qualche legame causale è, però, più che lecito.
Poiché immaginiamo che merito e doveri vadano d’accordo, in contrasto, appunto, con la retorica dei diritti, sommate le ricorrenze opportunamente e aggregando a quartine consecutive i discorsi analizzati (solo per ragioni di riduzione degli zeri, mentre le aggregazioni a quartine sono dettate dal fatto che 68 è divisibile per 4 fornendo 17 osservazioni esteticamente trattabili), si arriva alla figura 1, dalla quale effettivamente si vede bene che la ricorrenza della parola diritto/i è veramente e stabilmente crescente, a prescindere da merito/i e dovere/i.
Trattandosi di un fenomeno esteso per tre quarti di secolo, difficilmente lo si potrà attribuire al caso o a una modificazione epidermica del linguaggio. E poiché prescinde sistematicamente da quelli che possono essere definiti governi di destra o sinistra (mettendoci il “centro” attaccato dove vi pare, di volta in volta), il fenomeno tradisce un pensiero radicato: i diritti sono variabili indipendenti da qualsiasi altra relazione. È una visione meravigliosa. Che, però, non funziona. Chi avrà il coraggio di tornare a un racconto politico-sociale del ruolo del dovere? Per esempio: è usanza popolar-televisiva di intervistare pensionati integrati al minimo che puntualmente non arrivano alla fine del mese. Ma qualcuno osa domandare allo sfortunato di turno come mai in tutta la vita lavorativa non abbia mai versato contributi (e quindi imposte)? Sono circa 2,5 milioni i pensionati integrati al minimo oggi in Italia. Tutte carriere discontinue? Tutte madri prolifiche? No. Semplicemente non hanno versato perché non hanno sentito il dovere di contribuire alla propria pensione. E così via, lungo la strada dei diritti che altri dovranno sostenere. Per fortuna c’è il debito pubblico che possiamo trasmettere al loro futuro.
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